martedì, marzo 25, 2014

Molto forte, incredibilmente vicino.

Avete mai cercato di ritrovare qualcuno che è stato importante per voi e che non è più presente nella vostra vita per un motivo qualsiasi? E avete mai provato a superare qualcosa che vi sembra ogni minuto più grande di voi?, vi sentite soffocare, non sapete come andare avanti in nessun modo, scendete in strada, correte sulla cima di un ponte e gridate con tutta la voce che avete in corpo sperando che qualcuno vi senta e vi venga ad aiutare. E alla fine qualcuno arriva sul ponte, lassù in alto, vi guarda senza dire una parola perché odia o magari non riesce a parlare e vi fa segno con la mano di scendere dal ponte per ricominciare la lotta contro quel qualcosa più grande di voi, che però ora sembra più piccolo perché non siete più soli.
Questa è la storia di Oskar Schell, protagonista della meravigliosa storia creata da Jonathan Safran Foer racchiusa nelle pagine del romanzo più bello che io abbia mai letto, dal libro è stato tratto anche un bel film, ma quando ho deciso di raccontare questa storia, non ho avuto dubbi: avrei parlato del libro.
Oskar è un newyorchese di nove anni ed ha una strana personalità, è riflessivo, allegro ma soprattutto molto curioso, la persona a cui tiene di più al mondo è il padre Thomas con cui ha un rapporto bellissimo, stanno insieme molto spesso, giocano, camminano per Central Park cercando reperti archeologici, leggono il New York Times cerchiando con la penna rossa gli errori negli articoli, costruiscono gioielli e creano invenzioni immaginarie. Oskar, tra le prove per la rappresentazione de LAmleto, i libri di Hawking e le chiacchierate con la nonna, passa le sue giornate in modo abbastanza felice. Questo fino a quando l’11 settembre del 2001 il padre muore nell’attacco alle Torri Gemelle.
Apparentemente la vita di Oskar non cambia, a parte qualche giorno d’assenza in più a scuola, perché lui non mostra quello che prova a nessuno, ma in realtà è proprio da qui che partono tutti i suoi problemi. Trascorre le sue notti rigirandosi nel letto e gli capita molte volte dal “giorno più brutto” di piangere in silenzio e di fare invenzioni per non pensare a tutte le cose brutte che gli vengono in mente, immagina di inventare un sistema di tubi collegato ai cuscini di tutti i letti di New York per raccogliere le lacrime di chi piange prima di dormire, riversarle nel lago di Central Park e mostrare ogni giorno il livello di sofferenze degli abitanti della città. Oltretutto sente lontana anche la madre che passa molto tempo con un nuovo ‘amico’ e a Oskar sembra che si sia già dimenticata di suo padre, si isola dai pochi amici che ha e l’unica che sembra capirlo veramente è la nonna. Oskar le racconta con il walkman tutto quello che gli passa per la mente ma sente che nel cuore della nonna ci sono dei rimpianti e un dolore che nessuno dei due può comprendere fino in fondo, che la porta ad essere sempre così silenziosa e malinconica. Oskar cerca di capirla e aiutarla perché lei, come dirà spesso nel racconto, è una delle sue raisons d’etre, ma la nonna ha un passato trascorso a scrivere lettere a un bambino mai nato e a rincorrere un uomo che scappava dalla vita per paura di soffrire, e non lo vuole raccontare a nessuno.  

Qualche mese dopo la morte del padre, Oskar va a rovistare tra i suoi vestiti e trova il coraggio di toccarli e mettere le mani nelle tasche, senza volerlo fa cadere un vaso all’interno del quale trova una busta che contiene un foglio con su scritto BLACK e una chiave. Sceglie per qualche motivo di non chiedere niente alla madre e decide quasi subito di incominciare una ricerca per trovare la serratura da aprire con quella chiave. In questo modo Oskar vuole allungare i suoi “otto minuti di luce con il padre” e quindi sentirlo più vicino perché non l’ha mai sentito così lontano e si sente terribilmente in colpa.
Iniziano così un pirotecnico viaggio per le infinite strade di New York, le conversazioni con tutti i Black della città e le corse sui ponti con il binocolo, il tamburello e la vecchia macchina fotografica del nonno. A ogni fallimento Oskar sente di essere un passo più lontano dal padre, si sente le scarpe pesanti, come se fossero piene di sassi, gli sembra di correre controvento, di nuotare controcorrente e ogni no alla sua domanda “conoscevi mio padre, Thomas Schell?” è come se lo spingesse sempre più in basso dalla montagna che sta scalando. Sta cercando di stare bene come prima per far contenta la mamma e di trovare la serratura di quella chiave per andare incontro al padre, ma non ce la fa e molte volte pensa di smettere, ma per fortuna ci saranno delle persone che lo raggiungeranno là sulla montagna che sta scalando e di cui non vede mai la cima e lo aiuteranno a salire. 
Questa ricerca aiuterà lui stesso più che chiunque altro e anche se Oskar se ne accorgerà solo alla fine del viaggio, questo sarà per lui un vero e proprio tentativo di rinascere senza il padre, di tornare a vedere il mondo con gli occhi di un bambino che vuole conoscere quello che prova, che vive e ciò che lo aspetta nella vita e a sentire tutto questo molto forte e incredibilmente vicino.

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4/ 5
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