giovedì, luglio 31, 2014

Una lunga corsa in treno...


Per tutto il mese della fuga una immagine è rimasta nella mia mente, fissa, ben piantata, ben stabile, immobile.
Un treno. Ho letto libri che parlavano di viaggi in treno, ho visto film che parlavano di viaggi in treno, ho ascoltato canzoni che parlavano di viaggi in treno, sono salito su un treno, e ho visto scorrere tutto così velocemente, lasciandomi una soddisfazione e una quiete talmente appaganti da farmi venir voglia di passare il mese di agosto in treno.
Il treno lo potete creare anche voi nella vostra mente, perchè ogni volta che leggiamo un libro, guardiamo un film, ascoltiamo una canzone, la nostra immaginazione vola, fugge, parte in una corsa in una nuova realtà, si vivono nuove vite, quelle degli altri alle volte, ed è come un treno che fa fermate in luoghi quasi immaginari.
E leggevo i nostri articoli questo mese, leggevo cosa pensavano gli altri riguardo la fuga, e viaggiavo, e pensavo al treno, e pensavo a questa corsa verso ciò che volevo essere, verso una estate differente da come l'avevo sperata, ma forse con interessanti risvolti che si delineano in lontananza, come la stazione che si va mostrando pian piano da lontano, mentre guardiamo fuori dal finestrino del nostro treno.

photo credits: iNeedChemicalX
 
 

mercoledì, luglio 30, 2014

Il giardino delle parole


I giorni di pioggia per alcuni sono di conforto, per altri di sconforto. Qualcuno li vede come una via di fuga, qualcuno li vede come una trappola.
Non so se a voi è mai capitato, ma in determinati giorni, per determinati motivi, mi capita di recarmi sempre nello stesso posto, come un appuntamento fisso con quello stato d'animo che mi avvolge in quei giorni. Un luogo di riparo, una tana, un nascondiglio. Io di solito preferisco non condividerlo con nessuno, ma può capitare che in quel luogo incontriamo sempre una stessa persona, forse li per le nostre motivazioni, forse perchè ogni giorno li, forse perché è destino.
Takao e Yukari non si conoscono, ma in giorno di pioggia si ritrovano nello stesso giardino, sulla stessa panchina, nello stesso angolo. No, loro non si conoscono, ma sentono che qualcosa li lega, e iniziano a visitare quel luogo quasi in attesa di rincontrarsi.
Poche parole, qualche sorriso, qualche cenno, ma Takao e Yukari non si conoscono, e a loro sta bene così, quella dimensione è quasi irreale, quel luogo è quasi immaginario, è la loro via di fuga.
Lui studente che sogna di realizzare scarpe come professione, lei cupa, misteriosa, triste.
La stagione delle piogge finisce, e con essa i loro incontri. Con la pioggia termina la motivazione di Takao di recarsi li, e proprio quando sembra finito, scopre la vera identità di Yukari.
Non ve la svelo, così come non vi svelo il finale, ma vi dico che la pioggia può dividere o può unire, due anime diverse, forse un po' uguali, distanti, e solo in quel momento vicini.
Non so se anche voi come loro avete un rito simile, un luogo in cui fuggire e ripararvi da tutto, non so se qualcuno di voi ha provato quella sensazione di essere in un posto che non appartiene alla nostra vita quotidiana, ma che è solamente nostro, solo in alcuni giorni e attimi.
Una seconda vita, o meglio una seconda dimensione, che può unirci a qualcuno, o meglio ancora unirci a noi stessi, che ci spinge a ritrovarci e riconoscerci.
Perché si, i due protagonisti andranno avanti grazie a questo incontro, ma sarà grazie a questo nuovo spazio distante dalla realtà che scopriranno davvero chi sono, quali sono i loro limiti e i loro veri obiettivi, e torneranno a vivere, nonostante le giornate di pioggia, e le parole perse tra le foglie.

lunedì, luglio 28, 2014

Libero arbitrio

Immagine dal film "La terra silenziosa", 1985, diretto da Jeoff Murphy












Era una mattina strana.
Appena sveglio si affacciò alla finestra e vide che tutto era coperto da un sottile strato di nebbia, che sembrava aderire perfettamente ai contorni delle cose, delle persone.
Un po' inquietato, con un’inspiegabile sensazione di avvilimento, si preparò per andare a lavoro.

Uscì di casa e si chiuse la porta alle spalle. Seguì la strada con lo sguardo e vide che non c'era più nessuno in giro, anche se dalla finestra aveva notato un insolito numero di persone pochi minuti prima.
Con un'alzata di spalle si mise in cammino.
Era anche in leggero ritardo.

Andava a lavoro a piedi, non aveva la macchina e non gli piaceva la folla dei mezzi pubblici; vi si era sentito soffocare ogni volta che era stato costretto a prenderli. Quindi aveva scelto di andare a piedi.
E la cosa non gli dispiaceva. Non usciva molto di casa, era un tipo un po' solitario, ma non stava male. Socializzava con gli sguardi, quando camminava in mezzo alla gente. In fondo era sufficiente vedere le persone e sentirsi parte del grande fluire di passi e discorsi che seguiva ogni mattina ed ogni sera, andando e tornando dall'ufficio.

Quella mattina, però, non c'era nessuno in giro. Era strano ed inquietante.
Passava davanti a vetrine di negozi che di solito erano presi d'assalto già di prima mattina, ma non c'era nessuno davanti. Più proseguiva lungo la strada e più si sentiva oppresso.
Ecco, il bar in cui faceva colazione; doveva sempre aspettare prima di poter consumare un caffè, ma anche lì: nessuno…
Spinse la porta a vetri per entrare, ma già mentre appoggiava la mano al maniglione si era accorto che qualcosa non andava. Anche la cassiera, che gli regalava sempre un sorriso meccanico, molto professionale, e che lui odiava per questo motivo, non era al suo posto.
Entrò nel bar e rimase colpito dal silenzio che vi regnava. Andò fino al bancone, ma nemmeno lì c'era gente, neanche il barista.
Un brivido gli passò sulla schiena.
Il bar era completamente vuoto, come la strada.
Mentre uscì dal bar, in fretta ed impaurito, fece attenzione ai rumori della strada; il silenzio del bar gli aveva lasciato un senso di vuote che prima, perso nei suoi pensieri, non aveva avvertito.
Anche la strada era completamente e perfettamente silenziosa!
Nessun rumore di macchine, di passi frettolosi, neanche il continuo cinguettare degli uccelli.
Anche la brezza che faceva muovere gli alberi ai lati della strada, silenziosamente, notò, non aveva voce quella mattina.
Era come se fosse diventato sordo.
"Ma cosa...?" disse, e si spaventò del suono che udì. Era la sua solita voce, quindi non era diventato sordo, ma in quel silenzio perfetto ebbe il potere di terrorizzarlo.

In preda allo sgomento si mise a correre verso il suo ufficio.

Continuava a guardare nelle vetrine e lungo la strada, osservava febbrilmente ogni finestra dei palazzi che gli passavano a fianco come se si trovasse in una strana galleria, per vedere qualcosa, un volto, una tenda smossa, un'imposta che si apriva… niente!
Nessun movimento, a parte lui che adesso correva come un forsennato, col cuore che quasi si spaccava dalla fatica e dal terrore.
Erano spariti tutti. Il libraio che lo salutava sempre, fumando il sigaro davanti al suo negozio, la fioraia che ogni mattina, da anni, gli chiedeva se finalmente avesse trovato una donna, il ragazzo che da mesi cercava di vendergli lo stesso ombrello nero, che ci fosse il sole o che piovesse.

Nessuno! Era completamente solo.

Nella mente ormai un pensiero fisso "Non è possibile… non sta succedendo… dove sono tutti quanti?", con la corsa frenetica che lo portava sempre più vicino all'ufficio.

Ecco! Mancavano forse duecento metri al palazzo dove lavorava, anche di meno.

Sbatté con violenza contro il portone, troppo preso dall'orrore per poter rallentare.
Entrò, col naso che sanguinava per la botta presa, e, come temeva, non vide nessuno.

Non era possibile, perché erano spariti tutti quanti e perché lui era lì?
Non aveva senso.

Salì le scale per raggiungere il suo ufficio. La sua inquietudine gli rendeva impensabile l'uso dell'ascensore.

Mentre seguiva il corridoio guardava negli uffici dei colleghi, persone che conosceva da 10 anni ormai.

Vuoti.

In preda al panico, ormai, aprì la porta del suo ufficio e la sbatté dietro di sé, appoggiandosi ad essa per riprendere fiato.
Era un ambiente conosciuto, confortevole, che lo calmò un poco, non riuscendo, però, a togliere nulla alla sua disperazione.
Accese il televisore per sentir parlare qualcuno, chiunque, solo per sentire una voce, solo per ascoltare delle parole.

Frrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrssssssssssssssssssssshhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhh

fu tutto quello che uscì dalle casse.

Un fruscio, nulla più.
E dopo qualche istante si spense anche quel rumore.

Si lasciò andare sulla poltrona, alla sua scrivania e pianse.
Pianse singhiozzando come un bambino.
Era inspiegabilmente rimasto solo, completamente solo, e non riusciva a capire cosa fosse successo.

Alzando gli occhi rossi e gonfi colse un movimento nella stanza.

Vide un'ombra avanzare verso di lui, più nera della notte più nera.
Quando fu a poca distanza da lui dall'ombra uscì un tentacolo che gli porgeva qualcosa.
L'ombra lasciò l'oggetto sulla sua scrivania e lentamente si dissolse.

Silenzio assoluto durante la consegna.

Silenzio assoluto dopo.

Abbassò gli occhi per vedere cosa ci fosse sulla scrivania.

Una via d'uscita da quella follia.


Una via d'uscita col cane già armato.

giovedì, luglio 24, 2014

Percorsi dell'Anima di Antonino Schiera

Percorsi dell'anima
Antonino Schiera
Europa Edizioni

Percorsi dell’anima, Aforismi, Dediche d’amore. Questi i titoli delle tre sezioni che compongono la silloge che qui ci presenta per la prima volta Antonino Schiera, una raccolta fortemente centrata sull’introspezione, sullo sguardo interiore. Le tre sezioni sono come pietre miliari di questo percorso, permetteranno, a chi si addentrerà nella lettura di questa raccolta, di stabilire un contatto intimo e profondo con i sentimenti, le emozioni e le esperienze dell’autore, riuscendo, tassello dopo tassello, a comporre un variopinto mosaico ricco di dettagli e di vita.

La raccolta Percorsi dell'Anima di Antonino Schiera è amore. Introspezione sulla vita. Bagliori del quotidiano.
Ci racconta i sentimenti e le emozioni, ci insegna a vivere l'amore, a non lasciarlo andare, a lasciarci andare.
Percorsi dell'Anima, Aforismi e Dediche d'Amore sono le tre sezioni in cui ci viene spiegata la vita, ci è mostrato il percorso dell'esistenza come un fiume che lento scorre sino ad arrivare al suo grande mare.

Veniamo introdotti da un elogio al Sole e alla Luna, figure ricorrenti nella prima sezione. Il mare, la natura, le passioni, si intrecciano e sono ispirazione per mostrare le sensazioni celate nel cuore e nel tormento dell'amore.
Antonino Schiera ci esorta ad amare, perché l'amore è il motore di ogni cosa, è scintilla.
Il nostro cammino non appare semplice, spesso è come il Mare, “metafora della nostra vita a volte calmo a volte agitato”, ma non per questo ci è concesso fermarci: “questa nuova alba segna un nuovo giorno carico di sentimenti dolorosi che certamente si attenueranno”.
C'è una continua ricerca, uno scavare nel proprio io, nel profondo.
I Percorsi dell'Anima risultano scorci sul mondo, ispirazione per quel fiume che nasce.
L'Anima come desiderio; lo alimenta e lo crea.

Gli Aforismi, invece, racchiudono le sfere emotive alimentate dal nostro essere, sono consigli, insegnamenti, una guida per aiutarci nel cammino.
La vita è spiegata come un teatro: ognuno sceglie il suo ruolo, chi come comparsa, chi come attore, chi come colui che muove i fili dell'intrigo.
C'è Verità e Libertà, c'è Creatività.

Ed infine Dediche D'amore, un omaggio alle donne, alla loro “testa”, alla loro voce, alla loro essenza, ai loro occhi “accattivanti lanterne”, alla loro “severa dolcezza”.
A quella Stella così brillante da raggiungere, a quella landa sconosciuta, a quelle “diverse umanità che vivono i rivoli della vita”.

Aquila

oscuri anfratti delineati dalle estreme propaggini di venti
mulinanti
ascendenti fin lassù fra mirabili panorami
discendenti tra feritoie e nascondigli segreti
dall'alto aquila maestosa governi l’aria
non temi il vuoto umano di pensieri e paure
lancinanti guaiti di una preda indifesa...

mercoledì, luglio 23, 2014

Waiting Room

Waiting Room
Bianca Rita Cataldi
Butterfly Edizioni

È il 1942. In una Puglia bruciata dal sole, Emilia e Angelo condividono la passione per il sapere, il desiderio di libertà e il tempo della loro giovinezza. Settant'anni dopo, seduta nella sala d'attesa di un dentista, Emilia rivela a se stessa la verità negata di una giovinezza che adesso, per la prima volta, ha il coraggio di riportare alla luce. Con una scrittura che è poesia del ricordo e caleidoscopio di emozioni, Bianca Rita Cataldi accompagna il lettore tra i sorrisi e le lacrime di una donna come noi, raccontando la storia di un amore mancato, di una generazione nell'età dell'incertezza, di un'attesa che attraversa tutta una vita.

Quando ho iniziato a leggere questo romanzo ero carico di aspettative positive, non solo perché conosco l'autrice ormai da un po', ma perchè il suo primo romanzo,"Il fiume scorre in te", lo avevo divorato in pochi giorni, appassionandomi dalla prima all'ultima pagina.
Alle volte l'aver letto altri romanzi dello stesso autore e quindi aspettarsi qualcosa può essere una limitazione, si è convinti di ritrovare le stesse cose che ci sono piaciute nel precedente, e non sempre è così.
Le mie aspettative però non sono state deluse, anzi. Non mi aspettavo di leggere ancora della stessa ragazza, del suo viaggio, di quel treno, al quale ripenso ogni volta che mi ritrovo alla stazione di Adelfia e nel buio della notte vedo uscire dalla galleria il treno della Sud Est, mi aspettavo di leggere quella capacità di esprime concetti e sentimenti molto complessi, spiegati con le parole dirette e chiare di Bianca, che ti rendono la lettura talmente piacevole da non doversi mai porre un quesito su cosa stia accadendo, è sempre tutto limpido e chiaro, anche quando scrive di situazioni che nella vita reale poi non lo sono davvero così tanto.
Dovrei essere più professionale, e dire "le parole dirette e chiare della Cataldi", ma questa volta preferisco lasciare certi schemi nel cassetto, non solo perchè la conosco, ma perchè leggendo ciò che lei scrive tutti possiamo un po' immedesimarci nelle vicende da lei narrate.
Siamo in Puglia, anche questa volta, ed è piacevole non dover leggere sempre di quei posti quasi finti narrati di solito nei libri, quelle New York, Parigi, Londra narrate da scrittori della nostra terra, che magari queste città neanche le hanno mai viste.
Siamo in Puglia, e lo si respira in queste pagine, mentre Emilia, la protagonista, cammina tra i campi dei suoi genitori, contadini benestanti ma comunque umili, lo si avverte mentre si parla di quelle domeniche a messa, di quelle tradizioni ormai in disuso, della famiglia, così importante. 
Tutto si svolge in una sala d'attesa del dentista, la waiting room, dove l'Emila ottantasettenne di oggi ricorda l'Emilia ragazza del 1942, quella che voleva studiare, distaccandosi da ciò che era la consuetudine per i suoi tempi e la sua famiglia. Emilia vuole diventare professoressa (e lo diventerà), non vuole sposarsi, non ha fretta di avere figli, non vuole fare ciò che è tradizionale.
Non sono qui per svelare la trama, non è quello che amo fare nelle recensioni, ma vi basti sapere che Emilia è un personaggio forte, di quelli che nei romanzi spesso non si vedono più, una vera protagonista, che sa comunque lasciare spazio ai variegati volti di contorno, tra i quali spicca senza dubbio sua sorella Rosetta, che seppur non indispensabile alla trama, dà maggiore sensibilità al personaggio di Emilia.
Una cosa che amo nella scrittura di Bianca sono i suoi riferimenti al mondo mediatico quotidiano. Nel primo romanzo, durante la linea temporale, venivano citate diverse canzoni, a seconda dell'anno in cui la scena si svolgeva. Qui invece incontriamo il mondo televisivo, inserito come testimonianza del realismo del racconto, e quindi tra Martina Stella e Mara Venier, ci sentiamo davvero partecipi, ci sentiamo davvero proiettati in quel momento descritto.
I gesti poi così consueti descritti con precisione e naturalezza (la scena di Emila sul balcone con il suo basilico mi ha fatto davvero sentire a casa), e lo svolgere i pensieri della protagonista tra le righe della pagina, tutto sembra così concreto da poterlo immaginare.
E quella sensazione di attesa, di irrequieta attesa, che tutti abbiamo provato, tutti come Emilia nel cuore della notte, almeno una volta nella nostra vita, siamo rimasti in attesa, del giorno dopo o di un giorno lontano, che in quel momento non avevamo più la pazienza di aspettare.
"La vita alla fine è l'attesa di qualcosa, se noi arrivassimo non ci sarebbe più niente da conquistare" dice Bianca parlando del tema principale del libro "Anche quando conquistiamo qualcosa, poi ricomincia l'attesa, per qualcos'altro".
Emilia avrebbe potuto porre termine a quella attesa ad un certo punto, ma decide di non farlo, forse perché non ne è davvero convinta, forse per non fare del male a chi le sta attorno, per mantenere quella promessa fatta alla sua Rosetta, forse perché le manca il coraggio. Emilia preferisce restare nella "waiting room" della sua coscienza, dei suoi sentimenti, e andare avanti solo per il suo lavoro, per la sua passione per il sapere.
Non è però una decisione egoistica come può sembrare, non è il successo che cerca, è probabilmente la tranquillità, quello che renderà tranquillo il suo spirito e la sua famiglia, anche se forse non il suo cuore.
Emilia però sa che forse ha sbagliato, e per questo nella sua "nipotina" Martina ripone le speranze e la fiducia, Martina deve fare ciò che lei non ha fatto, ovvero agire e prendersi tutto quello che può prendersi, non deve accontentarsi o solo dall'amore o solo del lavoro.
"L'insegnamento è quello, muoviti, non puoi aspettare tutta la vita qualcosa che non esiste, qualcosa che non arriverà. E non bisogna mai arrendersi" dice Bianca parlando del messaggio che vuole dare attraverso questa donna che ha deciso di mettere in pausa un aspetto della sua vita, e si accorge troppo tardi di aver atteso inutilmente.
Il finale non deve essere a mio avviso però visto come qualcosa di negativo, la speranza che Emila ripone nei giovani, nella sua Martina, e in quella ragazza, a me familiare, che è li con il suo taccuino a scrivere pagine del suo libro, è la speranza che deve spingere ognuno di noi ad andare avanti, ad andare oltre a quello che ci sembra insormontabile, per il tempo in cui viviamo, per le persone che ci circondano, per quello che gli altri hanno già deciso per noi.
Dobbiamo fare la rivoluzione, per citare un personaggio del libro che non ho descritto nella recensione, perchè vi spiegherà, tra le pagine che profumano di Puglia e di progresso, perchè Emilia non ha lasciato la waiting room.

Ristorante al termine dell'universo

Ristorante al termine dell'universo
Douglas Adams
Mondadori

Arthur, Ford, Trillian e Zaphod, sfuggiti a diversi pericoli mortali ed esilaranti, non vogliono altro che trovare un ristorante dove rilassarsi un po'. Purtroppo molte altre persone hanno dei piani differenti per i nostri protagonisti...

Meno incisivo del primo capitolo della saga,  Ristorante al termine dell'universo è comunque arguto, ironico ed intelligente, e i capitoli centrali che parlano del famoso ristorante nel quale puoi assistere alla fine dell'universo (da qui il nome del romanzo), sono quelli più divertenti e il vero cuore della storia, anche perchè vedono i quattro protagonisti di nuovo insieme, dopo la loro dispersione nell'universo in due gruppi diversi nel resto del libro. 
Infatti assistiamo nuovamente al mitico duo Arthur e Ford insieme nell'espolarazione di posti ignoti, mentre Zaphod e Trillian di nuovo a bordo della Cuore d'Oro. Zaphod senza dubbio ha il ruolo centrale questa volta, perché è lui che si perde in avventure sempre più assurde, e sembra quasi il predestinato a risolvere qualunque problema l'Universo stia affrontando. Ecco, quindi, immaginate lo sbadato, irrequieto e pieno di se Zaphod come unica possibilità per salvere la galassia, e capirete perché i nostri amici sono di nuovo nei guai!
Il mio adorato Marvin, il robot più sfigato e depresso dell'universo, appare pochissimo questa volta, ma la sua presenza è sempre risolutiva, oltre che disarmante.
Il ristorante si pone alla fine dell'Universo in senso temporale: gli avventori possono gustarsi lo gnaB giB, cioè il Big Bang alla rovescia. Le descrizioni dei nuovi pianeti esplorati vi portano in una sorta di documentario geografico spaziale, il che riconduce al tema principale della guida galattica per autostoppisti, ed è sempre divertente scoprire l'assurdità delle azioni e tradizioni di questi popoli che si credano superiori agli umani, ormai estinti ad eccezione di Arthur.
Tra rockstar in stato catatonico, piatti che si servono da soli ai clienti del ristorante, navicelle spaziali tutte nere, e popolazioni agli albori della loro esistenza, Arthur, Ford, Trillian e Zaphod vi terranno compagnia in una avventura più surreale della scorsa volta, ma sempre molto molto divertente.

Se vuoi leggere la recensione del primo volume Guida galattica per gli autostoppisti.

lunedì, luglio 21, 2014

E mentre, certe sere, stelle spente

Hieronymus Bosch, Il Giardino delle Delizie, (1480-1490), dettaglio
















E mentre, certe sere, stelle spente
s’ebber, nere tempeste, brezze e neve,
l’esser ch’è nelle teste crebbe greve
e s’erse nelle tenebre, fervente.

Mescè nelle certezze del presente
e sempre emerse, perché sempre deve
tesser tele segrete, benché breve,
e svender le eccellenze del credente.

Serve tenere deste le certezze
per vedere le crepe del temere,
emettere sentenze e prevedere
le vertenze leggere, grette e grezze.

L’etere dell’essenze belle e chete
beve fremente, e l’ebbrezze e le sete.

sabato, luglio 19, 2014

The Truman Show

E se invece fosse la tua stessa vita l’accerchiamento che minaccia di sopraffarti? Se fossero i tuoi amici, tua moglie, il tuo lavoro, le quattrocentomila anime che assediano la tua libertà? Come faresti ad accorgerti di questo cappio invisibile che lentamente si stringe? Come potresti poi creare un diversivo e iniziare la tua fuga?
C’è chi una risposta a queste domande ha provato a darla. Anno 1999, The Truman Show, per la regia di Peter Weir, interpretato da Jim Carrey, Laura Linney, Noah Emmerich, solo per citare alcuni attori. 
Qui sotto possiamo vedere insieme il trailer.
 


Il film è disseminato di indizi che, fin dal principio, aiutano lo spettatore a farsi un’idea precisa di ciò che sta accadendo, prima ancora che la trama lo riveli. Lo stesso protagonista Truman - true man -  l’unico uomo vero all’interno di una finzione costruita ad hoc è attorniato da persone con nomi come Maryl e Marlon in un luogo dove le vie, le piazze e tutto il resto puzzano da cima a fondo di cinema e finzione.
In tutto questo scenario si può accompagnare Truman nella lunga marcia alla ricerca della verità, per sfondare le pareti che lo trattengono nel suo mondo: una fuga che sa di autocoscienza nella prima fase e di vera e propria evasione nella parte finale. Fuga reale, concreta. Fuga che arriva a disegnarsi nei contorni di una piccola barca, la Santa Maria, per affrontare le paure ancestrali, per trovare la verità.
Al di là di tutte le sinossi, di tutti i resoconti che potrei regalare in questo momento, c’è un aspetto del film che è sempre riuscito a indirizzare le mie pupille, i miei neuroni. Inconsciamente, il nostro Truman, resiste da lungo tempo: è come se avesse una fuga in embrione che gli tarla il cervello, giorno dopo giorno. Tutto questo è rapprensentato dal mosaico, a cui in ogni momento libero della sua giornata dedica attenzione, ritagliando dalle riviste e dalle foto che passano tra le sue mani, minuti particolari da incollare per ricostruire il viso di una ragazza incontrata anni addietro, che incarna tutto il suo correre lontano.


giovedì, luglio 17, 2014

Stabili Equilibri Precari

Stabili Equilibri Precari
Francesco Montalto 
SupernovaPromotion
 
“Stabili Equilibri Precari” è un libro di poesie, che racchiude tre anni di vita e di sensazioni particolarmente intense. Prima che poesia, “Stabili Equilibri Precari”, contiene gli sfoghi di una persona normale che vive spesso, per fortuna (o sfortuna), un mondo parallelo a quello degli altri. Le poesie diventano un modo per riuscire, almeno in parte, a sopportare le difficoltà che si presentano d'improvviso nella vita. Nei versi di “Stabili Equilibri Precari” c'è la sensibilità e la sincerità nel raccontare pulsioni e sentimenti quotidiani, che prima di tutto sono personali ma che magari possono diventare universali.

Il concetto di "Stabili Equilibri Precari" può sembrare contraddittorio, ma ci riporta ad una condizione che molti spesso proviamo, quel senso di stabilità, chiamiamola anche tranquillità, che avvertiamo in alcuni momenti, seppur consci, della sua precarietà, ovvero della sua fugacità. Siamo certi che non durerà per sempre, ma quel momento di equilibrio stabile rende quella precarietà trascurabile finchè dura.

Distanze delle menti ci parla della distanza che due persone si impongono per non provare dolore, per paura di provare qualcosa che non si riesca a controllare. É ora di andare via racchiude tristezza, solitudine e senso di vuoto. Ne Il fumo della solitudine ci sembra di vedere quella camera poco illuminata, ed una persona seduta sul pavimento, magari sotto una finestra, che si perde nel fumo, metaforico e non, della sua sigaretta. In Sfuggente una figura femminile non ben delineata ci appare, con i suoi contorni sfuocati, che si muove quasi interrompendo il vuoto e la solitudine delle poesie precedenti. Con Incontriamoci l'atmosfera diventa meno cupa, non si parla più di tristezza e solitudine, ma di sogni, e i versi prendono una nuova leggerezza. Mood ci porta nel tema principale della raccolta, ovvero l'equilibrio precario, che pur essendo tale porta stabilità, passando dal buio alla luce. Miglia e Miglia sembra parlarci del cammino dell'uomo, che a volte ti costringe a tornare indietro, anche facendo passi avanti. Come una spia mi fa pensare al fatto che spesso ci fermiamo a fissare estasiati qualcuno, che non conosciamo, ma vorremmo conoscere, e viene descritto il tutto con dolcezza in questo brano, forse il più bello della raccolta. In Un giorno qualunque riprovo quelle sensazioni di quando mi capita di camminare per le strade della mia città in giorni grigi, piovosi e freddi, senza una vera meta, in strade magari che non percorro mai, per la necessità di stare semplicemente solo, seppur in mezzo agli altri, senza parlare con nessuno, senza essere in compagnia di nessuno. Un divano solo per due racconta di quelle notti svegli insieme a qualcuno, a chiacchierare e a vedere un film, e quel senso di quiete con il quale ci addormentiamo, pur essendo già l'alba, pur essendo tutto finito. Leggendo Le porte alle spalle mi sembra di vedere questa persona che cammina per i corridoi vuoti di quella che era stata la sua casa, e che ora non lo è più, mi sembra di essere li e provare quella sensazione di commozione e sconforto. Dalle vetrine di quel bar racconta una atmosfera familiare a chi ama le giornate di pioggia, e ama guardare cosa accade da dietro i vetri di un bar, con la città e i suoi abitanti che combattono con la pioggia, e tutte quelle situazioni bizzarre che ne conseguono. 
La pioggia chiude il tutto, non necessariamente con malinconia. E piove ancora ci mostra come non ci siano più il buio e il vuoto dell'inizio, ora c'è un barlume di luce, di speranza, e la precarietà degli stabili equilibri è segnata dalle gocce di pioggia, come lancette che scandiscono il tempo.

Ci si può immedesimare in questa raccolta, solitudine e compagnia che si alternano fanno spesso parte delle nostre vite quotidiane, a seconda del nostro umore, a seconda delle azioni degli altri, inquietudini giovanili che si alternano all'euforia, quel senso di vuoto e pieno, di contrasto continuo, e quel momento, quella briciola di pace, precaria, ma stabile, almeno in quel momento.

mercoledì, luglio 16, 2014

Il cercatore

Wanderer in the Storm, 1835
Carl Julius von Leypold (Germany, 1805–1874)
Oil on canvas



I
Ancora una volta per strada. 
Anche adesso non rimpiangeva nulla della sua vita, solo, continuava a covare in lui un profondo ed impellente desiderio di continuare.
Era una sensazione che avvertiva appena appena sotto la pelle. 
Iniziò la tappa successiva del suo viaggio infinito col piede destro, come faceva sempre. Perché poi? Forse perché lo aveva sempre fatto ed era sempre riuscito ad andare avanti? Strana cosa la mente degli uomini.
Come spesso gli succedeva ripercorse nella sua mente gli ultimi anni, trascorsi ad osservare chiunque entrasse nel suo campo visivo. Cercava. “Leggeva” la gente. Imparava a conoscere le persone con gli occhi. Tutto è indicativo del carattere di una persona. Ecco uno che cammina con le spalle curve, gli occhi bassi e pensierosi. I vestiti nè nuovi nè troppo lisi. Pochi capelli, e quelli che ci sono formano un’aureola bianca intorno alla testa. Sui quaranta. Sbarbato. Il passo veloce, quasi nervoso. Problemi. Senza dubbio. Non porta la fede. Nessun segno sull’anulare. Mai sposato. Mormora. 
Un’altra patetica forma di vita. “C’è chi parla da solo e chi legge la gente”, pensa col sorriso sulle labbra. Era sempre stato capace di ridere di se stesso.
Sinistro-Destro-Sinistro-Destro.
I passi si susseguono a ritmo serrato. I pensieri tornano alla donna con cui si è quasi scontrato. Rifuggiva il contatto. Odiava essere toccato. Una sola volta ci erano riusciti.
Erano quattro, lo avevano aspettato all’angolo. Appena voltato si erano lanciati su di lui. Quando lo avevano lasciato sanguinava da molti punti del suo corpo dolorante. Lo avevano sorpreso. Gli era appena successa una cosa che non riusciva a capire. 
Aveva incontrato una persona che non era riuscito ad odiare.
Quando fu dimesso dall’ospedale l’aveva cercata nelle stesse vie, scrutando con circospezione le ombre e sfiorando con una mano i muri delle case, par avere almeno un lato coperto.
Non rincontrò i teppisti, ma nemmeno la donna. Sì, perché era una donna che lo aveva fatto smarrire nei propri pensieri. Lo aveva fatto vacillare. Tutta la sua sicurezza, tutta la sua assoluta autosufficienza aveva tremato sotto l’attacco di uno sguardo sereno. Ecco cos’era stato... gli occhi... erano verdi, lo ricordava bene, ma non il verde smeraldo tanto decantato dai poeti, no... era il verde tenue e delicato dell’erba appena spuntata, un’indefinibile sfumatura tra verde e azzurro... 
Non c’era paura in quello sguardo. Niente diffidenza. Curiosità forse. Certo non di più. A lui non ci si interessava. Ma era comunque la prima volta, per quanto si sforzasse di ricordare, che non veniva guardato con diffidenza. La prima volta che non si sentisse condannato senza appello ad essere obliato.
Destro-Sinistro-Destro-Sinistro
Ricordava anche il bambino. Quattro, forse cinque anni (l’età dei bambini gli creava problemi ancora). Gli aveva chiesto una storia. “Signore, mi racconti una storia?” Gli raccontò della principessa e del garzone, di come alla fine riuscirono a far trionfare il loro amore.
Gli piaceva raccontare storie, favole...
Anche la sua vita era una storia, ma una storia che non poteva raccontare.
Una storia può avere un senso solo se qualcuno la vuole sentire. 

E nessuno voleva sentire la storia di come dopo anni lui ancora cercasse gli occhi che lo avevano fatto sentire ... umano.


II
E la sua ricerca continuava, giorno dopo giorno. Passi interminabili accompagnavano lo scorrere del tempo. 
Ieri sempre uguale a domani.
Cercando trovava molto, ma mai quello che cercava. Poteva vederli, gli occhi verdi, quando i suoi occhi erano chiusi.

In sogno... nella mente...

Anelava a ritrovare la persona che per un attimo lo aveva reso felice. Perché era questa la conclusione a cui era giunto. Quell’attimo infinito in cui lo aveva guardato aveva sctenato in lui sensazioni mai esperite: era stata felicità quella.
Sentirsi accettato, non giudicato, non essere schivato.
Nè prima di allora, nè dopo, ebbe più quella sensazione di essere “qualcuno” e non “qualcosa”.

Ebbe un fugace contatto con la felicità quella volta in cui sentì una madre ridere con suo figlio.
Il suo cuore rise insieme a loro, ma lui non era che uno strano corollario della loro risata, li sentì soltanto.

Faceva del bene, certo, ovunque potesse, ma continuava a cercare.
E cercando trovava. 
Aveva trovato indifferenza, paura, dolore, tristezza. Aveva trovato persone come lui, eterni cercatori, aveva anche trovato sorrisi. Vuoti come le persone cui appartenevano.

Spesso si trovava sul punto di lasciarsi cadere per fermarsi, ma ogni volta era come se gli occhi verdi lo chiamassero, lo spingessero a camminare. 
Non ti fermare, dicevano, se ti fermi sei perso.

E così continuava a cercare, finché un giorno...


III
Era giunto al confine dei sogni, quel luogo dal quale non c’è ritorno. Per tutta la vita aveva cercato, trovando solo cose inutili.
Una sola volta, una soltanto, si era sentito uomo.
Non c’era più forza in lui, né motivi.
Quel giorno... si fermò

La ragazza che saltava nel tempo


Alle volte mi sono svegliato al mattino con la convinzione di aver viaggiato indietro nel tempo, o forse con la speranza di averlo fatto. Poi mi sono miseramente accorto che era solo una impressione, era solo una sensazione, non proprio di deja vu, ma comunque di aver già vissuto quel momento, o quello stato di confusione mentale che all'inizio mi aveva fatto credere di aver viaggiato attraverso lo spazio e il tempo.
A Makoto succede veramente, riesce a saltare nel tempo, con un semplice salto, fisico, che le permette di salvarsi, proprio quando stava per perdere la vita sotto un treno in corsa.
Mi sembra di sentire la sua ansia, quel senso di vuoto e di terrore, mi sembra di vedere la luce, di sentire il rumore,di vedere davvero tutto a rallentatore, mentre Makoto salta in sella alla sua bicicletta.
Ma non è una sensazione, Makoto ha davvero saltato, fisicamente e metaforicamente. Il fisico e la metafora anzi in questo momento non sono più differenti.
E così la ragazza scopre per caso di poter risolvere i suoi problemi viaggiando indietro nel tempo, arrivando forse ad abusare di questa capacità, mettendo così a rischio involontariamente la vita del suo migliore amico Kōsuke, che insieme alla sua ragazza, rischia di morire sotto quello stesso treno che inizialmente doveva colpire lei.
Involontariamente, perchè cambiando una semplice cosa nel passato, cambi automaticamente quasi tutto nel futuro, e così ad un certo punto per Makoto questo continuo viaggio avanti ed indietro diventa così naturale da non tener conto delle tante, troppe cose che stava cambiando.
Una vera fuga dalla realtà, o dal tempo se vogliamo essere pignoli, dovuta all'irruenza di una ragazzina che non è consapevole del rischio che il cambiare il passato, o il tentativo di farlo, comporti.
Non vi voglio rovinare il film e raccontarvi tutto, ma non posso non segnalare il personaggio di Chiaki che vi stupirà, e stupirà la stessa Makoto, (anche se non vi nascondo che io tifavo per Kōsuke!), e la zia di Makoto, personaggio sospeso e quasi assente, anche quando è presente, ma che vi lascerà l'impressione di sapere tutto ciò che sta accadendo, anche se forse non è affatto così.
Come in ogni film di animazione giapponese respirerete quei momenti di silenzio tra le villette a schiera mentre i protagonisti tornano a casa dopo la scuola, avvertirete quel calore estivo nel campo da gioco, come se fosse davvero li sotto il sole a picco, e vivrete il caos della città.
Fuggirete anche voi dal tempo e dallo spazio con Makoto durante la pellicola, che nella sua quiete e pacatezza racconta una storia molto dinamica e ricca di avvenimenti.

martedì, luglio 15, 2014

Raggi d'amore

 
Il sole insegue la luna,
muore ogni sera tra le braccia azzurre del mare.
Si spegne lentamente.
Con lo sguardo rivolto verso il cielo
un ultimo raggio di luce
per dirle addio.
Fugge via nell'oscurità
nella solitudine di un cielo senza stelle,
la luna.
E nell'attesa di rivedersi ancora
insegue il sole.
Lo attende
per un attimo fugace di amore.
E sopravvive per quel saluto dolce e amaro
per poi dissolversi nella luce.
E fugge ancora via. 
In uno spazio che non ha visibilità,
In un tempo che non ha ore.
Nel continuo cercarsi e perdersi
vivevano l'uno nell'attesa dell'altro.

Sono morto ogni singola volta.


Ho vissuto tante vite
ho percorso tante strade
ho abbattuto tanti muri
ho pianto sulla scia del cuore
ho riso sul cammino del giorno
ho affrontato la notte inquieta.

Nessuno mi ha detto come farlo
nessuno mi ha indicato la strada
nessuno mi conosce per quel che sono
ma tutti mi conoscono per quello che vogliono.

Ho vissuto tante vite
sono morto ogni singola volta
ho percorso tante strade
sono scappato da ogni singola trappola.

Ho amato ogni singolo respiro
ho odiato ogni singola persona
ho distrutto ogni fragile istante
ho corso fino all'ultimo gemito,

e sono morto ogni singola volta
e sono vivo per narrartelo.

sabato, luglio 12, 2014

Il giovane J.D.S.


Si narra che a un certo punto della sua vita, fece costruire una staccionata attorno alla propria abitazione, per tenere lontano chiunque tentasse un avvicinamento e se qualcuno poi si azzardava a oltrepassare il limite da lui imposto, lo attendeva col fucile aperto e col colpo in canna, sotto il portichetto.  Mi verrebbe da dire che per molti aspetti, fu sempre un uomo in fuga, ma se si guarda con attenzione, anche per lui si può individuare l’attimo in cui spezza l’accerchiamento, in cui prende coscienza del suo ultimo probabile respiro. Siamo nel novembre 1953, Cornish. Il nostro ha appena concesso una breve intervista, forse poco più che una continuazione di una chiacchierata, a una ragazza che frequenta il liceo Cleremont, con l’idea di riempire nulla più che la paginetta scolastica. Il pezzo, dopo varie vicissitudini, finisce invece sulla prima del giornale locale. Il tradimento, nella mente del nostro, è compiuto. Inizia così tutta la storià della staccionata, del fucile, della fuga dal mondo e tutto il resto. Per più di un anno, non si hanno più sue notizie. Rispetto troppo la sua persona e le sue scelte, per essere così scellerato da violentare la prigione che costruì attorno alla sua vita, quindi mi limiterò a menzionare le iniziali, J. D. S., scrittore. Nelle rarissime parole pubbliche rilasciate, mai tentò di nascondere l’amore per lo scrivere. Un amore quasi morboso, che finì per relegare in secondo piano tutto il resto. Ed è questo il suo modo di fuggire, la sua lunga traversata da sud a nord, con le infinite intemperie, gli abissi e i deserti lunghi migliaia di chilometri.
Sono sicuro che se continuassi a ciarlare della sua vita, il nostro scrittore non ne sarebbe affatto entusiasta, anzi. E allora farò parlare i suoi figli di carta e inchiostro. Sono due i filoni che suonano musiche adatte per capire il suo continuo correre lontano. Il primo è chiaramente il romanzo di punta, The Catcher in the Rye,  mentre la seconda è la piccola epopea della famiglia Glass.
Per l’intero finesettimana, in cui ci è permesso accompagnare il protagonista di The Catcher in the Rye, si sente Holden perennemente in bilico tra  partire e rimanere, tra la forza centripeta a cui, suo malgrado, è sottoposto verso la famiglia e l’abbandono della scuola, dei tipi alla Ackley o peggio alla Stradlater.  Ne parla con la sorella Phoebe, che tenta in tutti modi di farlo desistere e arriva fino a plasmarne in modo esplicito le linee distintive incontrando Sally:

“Possiamo fare così, domani mattina ce ne andiamo nel Massachusetts e nel Vermont, e tutto lì intorno, capisci? E’ bellissimo laggiù, è una meraviglia […] Andremo a stare in quei campeggi di casette di legno o un posto così finché non restiamo a corto di soldi. Poi, quando restiamo a corto, posso trovarmi un lavoro in qualche posto e possiamo vivere in qualche posto con un ruscello e tutto quanto, e dopo possiamo sposarci eccetera eccetera. Posso spaccare tutta la legna che ci occorre d’inverno eccetera eccetera.”

Ma la sua fuga - fuga dalla mediocrità, dai palloni gonfiati “che chiamano angeli i Lunt”, dall’obbligo degli ascensori per mettere il naso fuori di casa - la troverà solamente nello scrivere, o meglio nel raccontare. Nonostante infatti Holden alla fine del libro, accorgendosi di essersi sbilanciato troppo, cerchi di aggiustare il tiro suggerendo di non raccontare mai niente a nessuno se non si vuole sentire la mancanza di qualcuno, ormai l’assedio è infranto, l'accerchiamento che lo costringe tra le quattro pareti asfittiche è alle spalle. Sta fuggendo, sta raccontando!
Tutt’altro sentire è invece la famiglia Glass. Stiamo parlando di una serie di racconti sparsi, in cui nel corso degli anni, vengono presentati i sette figli di una famiglia che un tempo avremmo potuto definire borghese: non toglierò il gusto della ricerca, ma se qualcuno avesse bisogno di una rapida carrellata di questi baldi giovani la può trovare ad esempio nelle primissime pagine del racconto Raise High the Roof Beam, Carpenters.
In un breve episodio invece, intitolato A perfet day for a bananafish (che nella finzione letterale, in altri lidi, si scoprirà essere scritto da Baddy Glass) ad un certo punto Saymour, il più talentuoso dei fratelli Glass, racconta di un particolare tipo di pesce:

"Be', nuotano fino ad una grotta dove ci sono molte banane. Quando ci entrano sono pesci come tanti, ma appena entrati si comportano come maiali. Ho saputo che certi pescibanana mangiano anche settantotto banane. Naturalmente s'ingrassano troppo che non riescono più a uscire."


Ecco, in realtà, la schiera di questi giovani, alla continua ricerca di una soluzione, di una via di fuga, di una verità finale, pur trovandosi spesso in vorticoso movimento, rappresenta l’incarnazione stessa del pescebanana: sono troppo gonfi - chi di talento, chi di sapere, chi di altro - troppo gonfi appunto per tentare un qualsiasi tipo di fuga. Tanto che l’unica via di uscita sembra essere la morte volontaria, come per Saymour e forse anche per Buddy, o l'abbandono a Dio come per Franny.

Non è ancora possibile scolpire un giudizio definitivo, soprattutto perché fonti molto vicine alla famiglia (se non interne) affermano che ci sarebbe materiale pubblicabile per diversi decenni a venire, con precise indicazioni lasciate dallo stesso J. D. S., in tutti i suoi anni di lavoro latente, sul quando e sul come regalarlo al pubblico. 
Non ci resta che attendere nuove!

venerdì, luglio 11, 2014

Vita da bambola: Barbie in fuga!


Bentornati nella nostra amata rubrica "Vita da bambola", in questo appuntamento, dopo aver parlato la scorsa volta delle abitazioni di Barbie, vedremo i suoi mezzi di trasporti, tra automobili e camper dagli anni 60 ad oggi.
Io non sono un esperto di auto vere, quindi eviterò dettagli che mi facciano perdere credibilità, ma vi mosterò in foto i veicoli migliori che Barbie abbia mai guidato. Siete pronti? Salite a bordo allora!

1962 – 1963 Austin-Healey 3000 MKII
1962 Barbie & Ken Mercedes Benz
1971 Barbie Country Camper

1975  Barbie Volkswagen Camper  
1976 Barbie Star Vette

1976 – 1980 Barbie Traveler Camper
1979 Barbie Remote Control Vette
 1980 Barbie DREAM’VETTE Car
1980 Barbie Western Horse Trailer
1981 – 1984   Barbie Silver ‘Vette
1985 Barbie CAR Corvette Ultra
 1986 Barbie Splash Cycle Bike
1988 – 1989 Barbie “57 CHEVY”  Car
1989  JAZZIE’S CAR – VOLKSWAGEN CABROILET
1990 - 1991 Barbie Magical Motorhome
1993 Deluxe Patio Pool Party & Convertible Car
1994 Barbie  “Jaguar XJS”
1994 – 1996  Barbie Red Mustang Car

1995 Baywatch Lifeguard Rescue Wheels Jeep
1996 Sparkle Beach Barbie Wire-Controlled Sun Rider
 1998 – 1999 Barbie Radio Control 4×4 Jeep with Play Cell Phone Control
1998 Barbie Mustang Convertible
2000 Barbie Volkswagen VW Car
2001 Barbie Rocker Jam ‘N Glam Tour Bus Music Player Vehicle Concert Stage Band
2006 Barbie Hot Tube Party Bus
2009 – 2012 Barbie & FIAT
 2009 Barbie Pink World Glamour Camper
2011 Barbie Fashionista Car
 2011 – 2012 Barbie Sisters Go Camping Camper
2012 – 2013 Ken’s Mini Cooper Car
2014 Barbie Sisters Safari Cruiser 
2014 Trichelle doll and Car
 2014 Barbie Sisters' Deluxe Camper