venerdì, novembre 28, 2014

Il trucco c'è... e si vede!


 Il cinema, le serie tv, si sà, sono quella favolosa magia che ci permette di catapultarci in situazioni che abbiamo sempre immaginato di vivere, o di riscoprire anni che non ci appartengo, o di assaporare amori proibiti... insomma, il cinema ha la capacità di farci sognare. Spesso, quando ci lasciamo avvolgere dalle storie travolgenti di una pellicola, non ci domandiamo quanto lavoro vi è dietro la costruzione di quella storia. Spesso, ci piace ammirare le bellezze fiorenti delle attrici o sbaviamo impavide sui loro vestiti alla moda o fuori moda (a seconda del periodo storico che è in scena!).
Eppure, non è mai tutto come appare. Al di là del merito di attori, registri, produttori, alle spalle di tanta bravura e maestria c'è l'arte del trucco e del parrucco. Ebbene si, ci dimentichiamo talvolta che se un attore non ha segni evidenti di qualche imperfezione è proprio grazie al talento di una mano esperta: quella del truccatore. Se Monica Bellucci è la bellezza per eccellenza che ci vanta tutto il mondo, non è solo al dono e alla fortuna che madre natura le ha concesso. Il grazie va anche a quel magico correttore che le ha applicato la makeup artist che si occupa di renderla ancora più perfetta di come non sia già. Ma essere truccatori non significa solo saper scegliere quale fondotinta applicare su quella particolare attrice o saper realizzare un trucco anni '20 piuttosto che anni '50. Il talento risiede soprattutto tra le mani esperte di chi per esigenze di copione deve trasformare l'attore e renderlo personaggio "reale".
Proprio  l'anno scorso la PPI Premier Products ha pubblicato su youtube come viene creato un noto personaggio della serie tv americana "American Horror Story" (per leggere le nostre ultime recensioni cliccate qui ).
Ecco il video:

Allora, cari lettori prudenti non vi pare che sia un lavoro decisamente creativo e stimolante?

giovedì, novembre 27, 2014

Afterhours. Hai paura del buio?

  • 1 Hai paura del buio?
  • 2 1.9.9.6.
  • 3 Male di miele
  • 4 Rapace
  • 5 Elymania
  • 6 Pelle
  • 7 Dea
  • 8 Senza finestra
  • 9 Simbiosi
  • 10 Voglio una pelle splendida
  • 11 Terrorswing
  • 12 Lasciami leccare l'adrenalina
  • 13 Punto G
  • 14 Veleno
  • 15 Come vorrei
  • 16 Questo pazzo pazzo mondo di tasse
  • 17 Musicista contabile
  • 18 Sui giovani d'oggi ci scatarro su
  • 19 Mi trovo nuovo



IO  Grazie per avermi concesso questa intervista.
VECCHIO ME  Ma ti pare.
IO  Volevo iniziare chiedendoti, Hai paura del buio?
VECCHIO ME  Stiamo parlando dell’album degli Afterhours, ovviamente.
IO  Esatto. Il loro secondo in italiano. Nato in un periodo molto complicato per la band milanese. La loro casa discografica era fallita e il loro percorso musicale sembrava aver imboccato strade non semplici. E invece...
VECCHIO ME  E invece la casa discografica Mescal intercetta il loro destino e assieme danno alla luce questa fantastica raccolta, destinata a cambiare per sempre la loro vita e quella di migliaia di giovani.
IO  Anche il tuo?
VECCHIO ME  Puoi dirlo. Ogni volta che penso a questo episodio poi, il mio livello di fiducia nel destino aumenta considerevolmente.
IO  Tu quando hai scoperto questo album?
VECCHIO ME  L’album è uscito nel 1997, io però l’ho incontrato alcuni anni dopo. Eravamo in gita da superiori, una mia compagna si vantava di conoscere il miglior gruppo italiano. Non si sbagliava di molto.
IO  Che mi dici di Male di Miele?
VECCHIO ME  Bhe, non potevi chiedere di meglio. Diciamo che la considero la Smells like teen spirit italiana, non so se mi spiego. Tutta la rabbia, l’energia, la distruzione dei Nirvana la si può ritrovare in questo pezzo. Credo non esista eguali in idioma italico.
IO  Se parliamo di rabbia allora, sullo stesso livello ci mettiamo anche Veleno?
VECCHIO ME  Assolutamente sì, ci sta tutta. In Veleno ho sempre trovato anche degli accenti barocchi, difficili da inquadrare, ma di straordinaria bellezza.
IO  Ora che hai introdotto l'argomento direi che questo lo possiamo considerare un album completo. Rispetto ai precedenti, la presenza della ballate in stile Dylan, si fa più pesante. C’è una sorta di riequilibrio dei rapporti tra distruzione e costruzione.
VECCHIO ME Sottoscrivo in toto. Il pezzo Rapace poi fa da trait d'union tra il grunge italico, tipico dei primi momenti della band, e le sonate più melodiche, come ad esempio Voglio una pelle splendida.
IO  Non a caso hai citato questa canzone.
VECCHIO ME Proprio per niente. L' ho ascoltata in loop per quasi una notte intera in cuffia con una mia amica. Mi è entrata sotto pelle, credo non mi abbandonerà mai.
IO  Ho letto molto spesso che un dei metodi di scrittura più utilizzati per la gestazione di questo album è stato il cut-up, che ne pensi?
VECCHIO ME  Intendi il metodo che prevede di sminuzzare parola per parole di un testo, per poi ricomporlo in base alle sensazioni dello scrittore?
IO  Esatto.
VECCHIO ME  Credo che grazie a questo espediente siano riusciti a raggiungere un livello di suggestione evocativo ineguagliabile. Si sfiora spesso il nonsense, ma ci guadagna molto sul piano visionario. 
IO  Parlando di contenuti, oltre alla visione desolata di alcuni protagonisti, la scarsità di vie d'uscita, tu cosa aggiungeresti?
VECCHIO ME  Bhe, c'è un'ironia di fondo, che allenta sempre la tensione. In questo si sente molto l'influenza di Giorgio Gaber. In più ci vedo sempre la denuncia di una borghesia sopita e corrotta, denuncia dei finti alternativi, molto pasoliniano.
IO  Se volessimo inquadrarlo in un genere musicale?
VECCHIO ME  Rock puro. Grunge e punk in alcune sfumature. Cantautorale in altre. Adesso che mi hai fatto tutte queste domande però, togliti quella camicia a righe e quella cravatta, che non si può guardare. Andiamo a fare due tiri al campetto oppure inforchiamo la bici come ai vecchi tempi, dai!
IO  Con questa camicia io ci lavoro, non posso mica abbandonarla.
VECCHIO ME  Ti dico solo una cosa fratello: 1996
IO Cioè?
VECCHIO ME  Sei diventato un borghesotto, fratello. Come direbbero gli Afterhours “Cambia rotta cambia stile,scopri l’anno bisestile. Arrenditi! Risulta alquanto volgare il tuo annaspare”
IO  Oh, certo, ora ricordo il pezzo 1996. L’abbiamo cantata sotto il palco, giurando di rimanere per sempre selvatici.
VECCHIO ME  Vabbè, se per questo abbiamo anche perso diversa sensibilità alle corde vocali, urlando il nostro continuo scatarrare sui giovani d'oggi.
IO  Sì, però lì avevamo ragione. "Il sabato in barca a vela e lunedì al Leoncavallo", non c’è possibilità di assoluzione. 
VECCHIO ME  E' stato un buon periodo.
IO  Va bene, credo che abbiamo terminato. Grazie per aver condiviso con tutti noi queste tue impressioni, alla prossima!
VECCHIO ME  Grazie a voi!



martedì, novembre 25, 2014

Kandinsky: l'astrattismo tra suoni e colori

Vasilij Vasil'evič Kandinskij, il pittore e creatore russo, più noto come Vassily Kandinsky, è il creatore della pittura astratta. Da studente di legge, trova poi nell’arte la sua vocazione, si stabilisce a Monaco, città nella quale si sta cercando di abbandonare la moda simbolista e dove fonderà il gruppo Phalanx. Questo per Kandinsky è il periodo della sperimentazione, passa dal dipingere paesaggio scuri e ombrosi ai temi fantastici della tradizione russa e medioevale, fino allo sperimentare con il chiaroscuro che lo porta a creare i primi esempi di pittura astratta. 

Si dedica a numerosi viaggi tra Europa e Africa, fino a stabilirsi in Alta Baviera dove nasceranno i primi lavori in cui, il contrasto fra colori accesi e antinaturalistici, tra immagini prive di volume e nuove forme e colori, lo porteranno a dipingere l’astrazione dal reale.

Nel 1910, nel suo primo acquerello astratto, predominano due colori: il rosso e l’azzurro. Il critico d’arte Giulio Carlo Argan dirà che: Il rosso è un colore caldo e tende a espandersi; l'azzurro è freddo e tende a contrarsi. Kandinskij non applica la legge dei contrasti simultanei, ma la verifica; si serve di due colori come di due forze controllabili che possono essere sommate o sottratte e, secondo i casi, cioè secondo gli impulsi che riceve, si avvale di entrambi affinché si limitino o si esaltino a vicenda. Ci sono anche segni lineari, filiformi; sono, in un certo modo, indicazioni di movimenti possibili, sono tratti che suggeriscono la direzione ed il ritmo delle macchie che vagano sulla carta. Danno movimento a tutto l'acquerello.


Chi si ritrova davanti ad un suo lavoro è disorientato dal modo in cui usa la linea, essendo questa allo stesso tempo un elemento indipendente e un limite per il colore. 
Le sue opere astratte potrebbero essere raggruppate in tre gruppi che anche per le loro denominazioni indicano il legame di Kandinskij con la musica, si tratta infatti di "impressioni", "improvvisazioni" e "composizioni". Impressioni sono i quadri nei quali resta ancora visibile l’impressione diretta della natura esteriore; improvvisazioni, sono quelli nati improvvisamente dall’intimo e inconsciamente; le composizioni quelli alla cui costruzione partecipa il cosciente, definiti attraverso una serie di studi. Kandinsky dopo questo passaggio, non ritornerà mai più alla pittura figurativa.

Kandinskij, nelle sue opere, espone le sue teorie sull'uso del colore che mostrano un nesso strettissimo tra opera d'arte e dimensione spirituale. Il colore può avere due possibili effetti sullo spettatore: 
- un "effetto fisico", superficiale e basato su sensazioni momentanee, determinato dalla registrazione da parte della retina di un colore piuttosto che di un altro;
- un "effetto psichico" dovuto alla sensazione spirituale che attraverso il colore raggiunge l'anima. L'effetto psichico del colore è determinato dalle sue qualità sensibili: il colore ha un odore, un sapore, un suono.
Perciò il rosso, ad esempio, risveglia in noi l'emozione del dolore, non per un'associazione di idee (rosso-sangue-dolore), ma per le sue caratteristiche, per il suo "suono interiore". Kandinskij utilizza una metafora musicale per spiegare quest'effetto: il colore è il tasto, l'occhio è il martelletto, l'anima è un pianoforte con molte corde. Il colore può essere caldo o freddo, chiaro o scuro. Questi quattro "suoni" principali possono essere combinati tra loro: caldo-chiaro, caldo-scuro, freddo-chiaro, freddo-scuro. Il punto di riferimento per i colori caldi è il giallo, quello dei colori freddi è l'azzurro.

Kandinskij, sempre in base alla teoria secondo la quale il movimento del colore è una vibrazione che tocca le corde dell'interiorità, descrive i colori in base alle sensazioni e alle emozioni che suscitano nello spettatore, paragonandoli a strumenti musicali. Egli si occupa dei colori primari (giallo, blu, rosso) e poi di colori secondari (arancione, verde, viola), ciascuno dei quali è frutto della mescolanza tra due primari. Così il prorompente giallo sarà paragonato al suono di una tromba, l’azzurro, il blu dal tono più chiaro, sarà associato al suono prodotto da un flauto, il vitale e vivace rosso al suono di una tuba fino ad arrivare ai due non-colori/non-suoni rappresentati dal bianco e dal nero; il primo è dato convenzionalmente dalla somma di tutti i colori dell'iride, ma è rappresenta un mondo in cui tutti questi colori sono scomparsi, di fatto è un muro di silenzio assoluto, però un silenzio di nascita, ricco di potenzialità, e rappresenta quindi la pausa tra una battuta e l'altra di un'esecuzione musicale, che prelude ad altri suoni. Invece il nero è mancanza di luce, è silenzio di morte, è la pausa finale di un’esecuzione musicale.


Ho voluto evidenziare questo aspetto della creatività di Kandinsky proprio perché i colori sono quelli che colorano le nostre giornate, che danno vita ai momenti della nostra vita e che ingiustamente non hanno l’importanza che meritano. Adesso quando passeggiando sentiamo il giallo calore del sole sulla nostra pelle potremo anche pensare alla melodia che ci sta regalando. 

Nick Cave & The Bad Seeds - Your Funeral...My Trial


"That particular record, which is my favourite of the records we've done, is very special to me and a lot of amazing things happened, musically, in the studio. There are some songs on that record that as far as I'm concerned are just about perfect as we can get really- songs like "The Carny", "Your Funeral, My Trial", and "Stranger Than Kindness", I think are really quite brilliant."


Your Funeral… My Trial, anno 1986, è il quarto album in studio di Nick Cave e i suoi ormai inseparabili compagni di viaggio, i Bad Seeds.
Forse il più controverso tra i dischi del cantautore australiano, Your Funeral… My Trial, dominato da atmosfere lugubri e oscure, è teatro di dialoghi e vicende che vedono come protagonisti personaggi malati e malinconici creati dall’immaginazione di un Nick Cave distrutto dall’eroina, che cerca di accendere una luce nel vuoto e nel buio della voragine in cui si trova. Fin dal primo brano, Sad waters, mi sembra di aver attraversato il tempo e lo spazio e di esser stata catapultata in un’altra dimensione, e se un momento fa ero sulla riva di un lago con Mary, la protagonista di questa canzone iniziale, adesso, senza avere un attimo per riprendermi da quello che ho appena ascoltato, sono in un altro posto, una piccola città, per la precisione. E’ la città di The Carny, uno dei pezzi più famosi del gruppo. Sento un’atmosfera strana, a metà tra una marcia funebre e un cartone animato e il brano, con un ritmo che fa pensare a un valzer inquietante e solitario, evoca dei brevi momenti di vita di un circo popolato da freak, si sente l’eco lontana di una vita ormai sparita, e si vedono personaggi inventati che creano un mondo quasi mitologico, un mondo pieno di cinismo e disprezzo in cui Cave si rinchiude cercando di usarlo come via di fuga.

Costantemente accompagnato da voci profonde, atmosfere sognanti e allo stesso tempo disincantate, Your Funeral… My Trial continua il suo ostinato percorso tra le ombre, snodandosi ed esplorando ogni volta mondi diversi, bui e malinconici, e dopo un po’ mi sembra di stare al passo con le musiche, i testi, le storie, ci sono dentro, accompagno la voce di Nick, quasi come se fossi lì fisicamente. Attraversiamo i pensieri di Jack di Jack’s shadow che, tormentato dalla sua coscienza, cerca ossessivamente la sua ombra, e dopo i suoni disordinati e confusi di Hard on for love, sono sempre lì quando canta in She fell away la scomparsa di qualcuno che forse non è neanche mai esistito, ma che ha lasciato in lui un vuoto tanto paralizzante da renderlo folle. Il percorso si chiude con il ritmo ripetitivo e incalzante di Scum, Nick conclude con un tono cattivo e disincantato, così come aveva iniziato.


Your Funeral… My Trial è, così come lo definisce la critica, un particolare contatto tra caos sonoro e ricerca melodica, un incontro tra il vecchio, cioè il tipico stile del gruppo, e il nuovo, le sperimentazioni musicali fatte in studio. I testi difficili, le atmosfere scure e i suoni fuori dal comune rendono questo disco forse il più bello e il più originale del gruppo, tanto che lo stesso Nick Cave lo reputa il migliore della loro produzione.





Sometimes



Talvolta

At night I feel the end it is at hand

Di notte sento che la fine è dietro l’angolo

My pistol going crazy in my hand

La pistola mi impazzisce in mano

For she fell away

Perché lei è scomparsa

O she fell away

O lei è scomparsa

Walked me to the brink

Mi ha portato al limite estremo

She fell away

Poi lei è scomparsa

I did not see her fall

Non ho visto la sua discesa

To better days

Verso giorni migliori

Sometimes I wonder was she ever there at all

Talvolta mi chiedo se sia mai esistita veramente

lunedì, novembre 24, 2014

Lettera a un bambino mai nato di Oriana Fallaci





E' inevitabile pensare che la donna, in quanto tale, sia sinonimo di vita. E' pensiero comune che tutte le donne, proprio perché portatrici di nuova vita, abbiamo come desiderio fondamentale comune quello appunto di procreare. E' veramente così? Abbiamo tutte l'istinto materno?
"Lettera a un bambino mai nato" di Oriana Fallaci, è uno di quei testi profondi che lasciano il segno, di quelli che ti spingono a riflettere e a mettere a nudo ogni tua più intima emozione. Un libro che non è un libro. Un romanzo che non è un romanzo. E' assolutamente qualcosa di più. Forse perché da donna, la lettura di questo monologo ha colpito un aspetto della mia sensibilità che a pochi ho mostrato.
La maternità non è sempre una scelta. Mettere al mondo un figlio non sempre è una gioia cercata e voluta. Non tutte abbiamo l'istinto materno.
Il monologo è di una donna senza volto né nome. E' semplicemente una donna, che può essere chiunque. Possiamo essere noi, può essere una nostra amica, una nostra parente. E' quanto di più vero c'è nel nostro intimo, perché spinte probabilmente dalle convenzioni sociali, difficilmente abbiamo il coraggio di dare voce alle nostre paure, alle nostre ansie, ai nostri più bui sentimenti. Attraverso questa lettera l'autrice tocca argomenti delicati come l'aborto e ponendosi costantemente domande su se sia giusto o meno mettere al mondo questo figlio inaspettato, percorriamo le sue paure. Cerca un segno, lo chiede a quel figlio non programmato, nella speranza di poter capire se anch'egli è disposto a venire al mondo. In un continuo circolo di domande, senza mai trovare risposte determinanti, l'amore verso quell'esserino giunge e se ne meraviglia. Si meraviglia nel ritrovarsi madre e ne accoglie lieta tutti gli aspetti. Tuttavia, nel monologo le figure genitoriali e il medico che ha in cura la neo mamma senza nome, influiscono sulle scelte di quest'ultima e il bambino non nascerà.
Questo scritto ha messo in moto emozioni contrastanti e la sua lettura ha riscoperto un solco nel mio cuore che forse un giorno verrà colmato. Anche io, come la protagonista del libro, mi pongo spesso domande sulla maternità, soprattutto perché ciò che più mi spaventa è il mondo circostante che nella sua crudeltà si compone di individui sociali sporchi e malvagi. Quanto amore c'è nel mettere al mondo un figlio nonostante le brutture che si vivono ogni singolo giorno? Sarei disposta a correre il rischio? Ancora non so darmi risposte.
E inevitabilmente quando, prendendomi un po' in giro, mi chiedono quando farò un figlio, mi chiudo a riccio.
"La maternità non è un dovere morale. Non è nemmeno un fatto biologico. È una scelta cosciente." O.F.

da PensieriParole <http://www.pensieriparole.it/aforismi/vita/frase-34080?f=w:188>

venerdì, novembre 21, 2014

American Horror Story - Freak Show - 4x05, 4x06


Pink Cupcakes, un titolo dolce per un episodio che non lo è affatto. Poli opposti e disgreganti della serie sono Stanley e Dell. Da una parte Stanley, alla frenetica ricerca di un freak con cui incassare l’assegno del museo, dall’altra Dell, che scopriamo in un’inaspettata versione gay e violenta. 
Stanley cerca di avvelenare le gemelle, ma l’unico risultato che ottiene è alimentare la gelosia di Elsa. E tutto sembra fare gioco al furbo Stanley, che riesce a intortare Elsa affogandola nella sua illusione di successo con la promessa di uno show in televisione. 
Dell invece ce lo ritroviamo in un bar per gay, a discutere del suo futuro con il suo amante. Ci siamo persi qualcosa? 
Ed è fantastica l’opposizione con sua moglie Desiree, che nello stesso momento scopre di essere un donna anche biologicamente e di poter avere dei figli. 
Nel frattempo il mio amato Dandy continua la sua striscia di omicidi scegliendo come palcoscenico la roulotte di Twisty. E’ proprio vero che l’amore supera anche i confini spazio temporali. 
Ma la chiusura dell’episodio, che fa da collante con il successivo, è tutta affidata alla gelosia di Elsa che, decisa a disfarsi delle gemelle, le vende alla madre di Dandy. 
Da sottolineare l’ingresso in scena della fantastica Gabourey Sidibe nelle vesti della figlia preoccupata della povera Dora, vedremo se sarà lei a svelare e far rinchiudere il piccolo Dandy. 

L’episodio 6 è grosso modo Elsacentrico e, sarò anche ripetitiva, ma ogni episodio in cui Jessica Lange è protagonista assoluta è un episodio meraviglioso. E qui, dove emerge il suo lato oscuro, c’è di che gioire. 
Iniziamo dicendo che è una grande occasione per il Freak Show: è il compleanno di Elsa, madre generatrice di questo spettacolo mostruoso. Per un’anima così affamata delle luci della ribalta, essere al centro dell’attenzione per un intero giorno è un po’ un’esigenza  fondamentale. Ma troppi ostacoli si pongono sul suo cammino di auto celebrazione. Innanzi tutto la scomparsa delle gemelle. I freaks sono preoccupati per loro, com’è comprensibile. Ma questo non fa altro che scatenare l’ira della padrona dello show, che vuole essere l’unica stella. Oggi e per sempre. 
Veniamo inoltre resi partecipi della sua tresca segreta con Paul, che però di tresche segrete sembra averne più di una.
Figlio mio, non hai proprio capito contro chi ti stai mettendo, vero?
Non passa molto tempo e Elsa scopre l’inganno e zitta zitta accoltella l’amato, incatenato su una ruota che vortica impazzita - donne di tutto il mondo, prendete nota. 
Così, alla preoccupazione per le gemelle, si somma quella della sorte per Paul. Povera Elsa, non gliene va bene una. 

Ma permettetemi di prendere un secondo solo per mettere l’accento sull’interpretazione della Lange. Scoppi d’ira folli e contenuti, rabbia, dolore, frustrazione. Tutto recitato con una passione e un accanimento su ogni singola inclinazione della voce da far venire la pelle d’oca. E’ vero, sono di parte, ma come si fa a non amare un’attrice che genera una tale immedesimazione con ogni personaggio che interpreta? Ha alzato uno spessore già elevatissimo come solo le grandi sanno fare. 

Ma torniamo a noi, perché nel frattempo le gemelle vivono il sogno di ogni malata mentale: sono ostaggio della prigione dorata che è la stanza da giochi di Dandy. Avete visto la macchina per i pop corn? Io mi ci trasferirei subito. 
Mi ero un po’ preoccupata quando Dandy, da feroce assassino assetato di sangue, si stava trasformando in un cucciolo innamorato e premuroso. Ma fortunatamente è bastata un piccolo rifiuto a giocare secondo le sue regole da parte di Dot, che il nostro pazzo furioso è tornato all’assalto e ha confermato la sua natura. E’ venuto al mondo per portare morte, non amore. Thank God. 

L’episodio si conclude con la bellissima Elsa che soffia sulla candelina consegnandoci il suo desiderio di compleanno. Io avrei scommesso tutto su “voglio essere famosa”, e invece i piani si ribaltano ancora una volta in questa serie che sta facendo dell’esplorazione di tutto ciò che ci può essere di più recondito nell’animo umano il suo punto di forza. Così, nel silenzio della sua mente Elsa scioglie la sua parte più nera sussurrando un timido “Voglio solo essere amata”. 

lunedì, novembre 17, 2014

Rassegna Bravòff: Jom



Jom, secondo spettacolo della rassegna Bravoff tenutosi il 13/14 novembre, ci parla della drammatica vicenda di un ragazzo “negro”, vittima delle prevaricazioni di una società in cui è impossibile sfuggire alla diversità.
Jom è strutturato sulla base de “La Putain respectueuse” di Jean-Paul Sartre, opera costituita da un solo atto, scritta nel 1946 in seguito ad un viaggio negli Stati Uniti e alla lettura di una storia vera contenuta ne “Les États-Désunis” di Pozner.
La condizione in cui il popolo nero viveva in America, le discriminazioni a cui era soggetto, scatenarono in Sartre la necessità di comporre un testo rivoluzionario, un testo sociale in grado di dare l'idea su quella che fosse la reale situazione.
Un “negro” costretto a fuggire per una colpa che non detiene, a cercare aiuto presso la prostituta Lizzie per evitare la morte.
Sartre dimostra come Lizzie, il ragazzo (chiamato sempre e solo “negro”), i suoi persecutori (la polizia, il cliente importante e il senatore), siano allo stesso tempo i prodotti e le vittime di certe strutture collettive immancabilmente costrette ad un condizionamento reciproco degli individui che le compongono.

In Jom la messinscena stilizzata e la musica riprodotta dal vivo hanno reso maggiormente l'idea di un testo nervoso, aggressivo, fatto di parole che colpiscono nel segno e danno vita all'assurdo.
Le movenze, i tic, lo stesso linguaggio portano alla nascita di un riso spontaneo ma di denuncia degli scandali sociali e morali dell'intera vicenda.
Vediamo come i Bianchi, il potere violento e presuntuoso, paralizzi il diverso dall'interno, nella sua vita quotidiana e nella sua esistenza. Così “il negro” si rifiuta di sparare, così Lizzie non osa di più.
I “Superiori” appaiono come il bene, la cui stessa vita è giustificata in partenza: la nazione ha bisogno di un uomo onesto e lavoratore che appartenga al suo popolo, cosa può dare invece un uomo differente e povero?
Lizzie e il ragazzo di colore diventano il male: lo stesso cliente affermerà che la prostituta è il Diavolo, quale sortilegio gli ha gettato?

Ma Jom è ancora di più, è anche l'unione di eventi di cronaca e di realtà. L'estemporanea all'interno della rappresentazione, ci racconta ciò che accade ai giorni nostri, ciò che vediamo fingendo di non accorgercene.
E' il viaggio di tanti ragazzi senegalesi, è la speranza di trovare un mondo migliore.
Jom, con Gabriella Altomare, Arianna Di Savino, Francesco Lamacchia, Vito Latorre (anche regista e traduttore), Ermelinda Nasuto e Antonio Repole, è il racconto del coraggio. E' il coraggio di tanti uomini pronti ad affrontare ogni potere, ogni violenza per raggiungere il loro sogno.

La Compagnia Teatrale Onirica dà vita ad un teatro di apertura alla riflessione sociale, un teatro che porti al cambiamento partendo dall'individuo. Un punto di vista differente per una nuova opportunità.



domenica, novembre 16, 2014

To Kill a Mockingbird



“Mockingbirds don’t do one thing but make music for us to enjoy. They don’t eat up people’s gardens, don’t nest in corncribs, they don’t do one thing but sing their hearts out for us. That’s why it’s a sin to kill a mockingbird.”
   
1960. Harper Lee pubblica un libro che, dopo non molto tempo, diventerà uno dei più importanti romanzi di formazione della storia. Lo chiama “To kill a mockingbird”: “Uccidere un usignolo”. Titolo particolare la cui bellezza e il cui significato si rivelano dopo non molte pagine del libro. In italiano viene trasformato del tutto, come spesso accade con i titoli dei libri o dei film, gli editori e i traduttori decidono che da quel momento in poi l’opera di Harper Lee si chiamerà Il buio oltre la siepe. Sono due titoli discordanti tra loro ma quello italiano supera in bellezza, se possibile, quello originale. Il buio oltre la siepe è quello che continua a spaventare per anni i fratelli Finch, Jem e Scout, quel luogo tanto vicino quanto sconosciuto che, pur essendo solo a pochi passi dalla veranda e dal giardino della loro casa dove trascorrono tutte le estati con l’amico Dill, li terrorizza. C’è un angosciante alone di mistero intorno a quel buio oltre la siepe, intorno alla villa dei Radley, e in città la leggenda di Boo Radley si insinua in ogni casa, in ogni fessura dell’immaginazione degli abitanti di Maycomb, animando i racconti dei ragazzi e facendo brillare di terrore gli occhi dei bambini a cui viene proibito dai genitori anche solo di avvicinarsi al cortile dei Radley. Si racconta che Boo Radley non uscisse da casa ormai da vent’anni e sono in molti a credere che in realtà fosse morto da tempo, ma nessuno si interessa alla realtà, nessuno ha il coraggio di bussare alla porta dei Radley e chiedere cosa sia successo a loro figlio. Il problema più grande della piccola contea dell’Alabama è, come ci racconta la piccola Scout Finch attraverso i suoi occhi vispi e le sue parole forti, la paura e il disprezzo verso lo sconosciuto, l’oscuro. Così come hanno paura di qualcuno che non hanno mai visto, perché “chi non esce mai di casa, sicuramente ha qualcosa da nascondere”, gli abitanti di Maycomb tendono ad allontanare tutto ciò che è diverso dalle loro abitudini, dalle loro tradizioni, dal loro concetto di ‘buona famiglia’ e ‘brava persona’: gli stranieri sono tra questi.

Scout incomincia a raccontare ai lettori, nel modo più semplice possibile, come se stesse parlando ad un amico, la sua vita a Maycomb, che prosegue tranquilla di giorno in giorno tra le estenuanti giornate nell’odiata scuola della contea, i giochi con il fratello Jem e le letture serali del giornale con il padre Atticus, avvocato idealista e coraggioso. Scout mi trasporta fin da subito nelle dinamiche cittadine e nelle abitudini intramontabili dei suoi abitanti, e dopo solo qualche rigo mi sembra di essere nei suoi panni, il mio sguardo è diventato il suo e i miei occhi devono necessariamente muoversi veloci per seguire i suoi, attraverso le strade, gli avvenimenti e le emozioni della sua vita nel quadro tanto tipico quanto sconfortante di Maycomb, il cui ritratto sembra già essere ben delineato dopo qualche capitolo, ma in realtà si rinnova ogni volta mostrando sempre nuovi sconcertanti aspetti di sé.



All’improvviso, un giorno qualunque di un’estate qualunque, Jem e Scout con il loro amico Dill, decidono di smettere di avere paura, di sconfiggere il terrore e la diffidenza verso il buio oltre la siepe e andare quindi a trovare Boo Radley di nascosto. Nello stesso momento Atticus accetta una causa che cambierà la vita di tutta la sua famiglia, un’impresa impossibile in cui decide però di credere, che gli metterà contro tutta Maycomb: dovrà difendere in tribunale un giovane ragazzo nero accusato di violenza carnale contro Mayella Ewell, figlia di uno degli abitanti storici della contea.
Attraverso gli occhi di Scout vediamo come gli sguardi di rispetto e riverenza dei vicini di casa verso Atticus si trasformano in occhiate di disprezzo e diffidenza, come cominciano a logorarsi anche i rapporti con le zie e i cugini che lo chiamano ‘difensore di negri’. Scout e Jem sono costretti a fronteggiare costantemente le prese in giro dei compagni di scuola e dopo qualche pianto e qualche rissa, Scout si convince finalmente che non c’è nessun bisogno di difendere il padre dagli insulti anche perché lui le chiede di non farlo.
Harper Lee racconta, attraverso gli occhi critici di due bambini, che spesso sembrano essere gli unici in grado di giudicare la realtà che li circonda, la lotta di un uomo, di un padre che sogna un mondo nuovo per i suoi figli, senza barriere, senza bambini che non hanno il diritto di imparare a leggere e senza la paura verso il buio oltre la siepe.


"Volevo che tu imparassi una cosa: volevo che tu vedessi che cosa è il vero coraggio, tu che credi che sia rappresentato da un uomo col fucile in mano. Aver coraggio significa sapere di essere sconfitti prima ancora di cominciare, e cominciare egualmente e arrivare sino in fondo, qualsiasi cosa succeda. È raro vincere, in questi casi, ma qualche volta succede"

giovedì, novembre 13, 2014

"La Solitudine dei Numeri Primi" di Paolo Giordano


Qualche anno fa, mi trovai immerso nel ciclone mediatico che parlava de: "La solitudine dei Numeri primi", e poco tempo dopo vidi il film, senza però aver letto il romanzo. 
La pellicola mi affascinò così tanto che decisi di comprare il romanzo, che è rimasto per molto tempo rinchiuso nella mia libreria. Oggi, dopo quasi 3 anni,  ho ripreso il libro in mano e l'ho letto tutto d'un fiato.
La storyline principale è molto accattivante, forse a tratti un po’ scontata, ma è proprio questo a renderla affascinate ed avvincente. Alice è una ragazza che vive costantemente all’ombra del padre e continua ad inseguire i sogni dell’uomo, soffre di anoressia, e vive forse in maniera troppo complessata a causa della cicatrice che le è rimasta dopo l’incidente. Mattia, anche lui protagonista del romanzo ha un passato difficile, che lo segna costantemente in molte scelte e soprattutto nei rapporti con gli amici. La sua stranezza e il suo modo di comportarsi attirano subito l’attenzione di Alice. I due inizieranno a frequentarsi, ma come i due numeri primi gemelli, non riusciranno mai a trovare un punto d’incontro, per potersi amare e stare insieme. 
Il romanzo si articola, inizialmente su due linee temporali e spaziali distinte, che pian piano si incontrano nella parte centrale della storia per poi dividersi nuovamente quando i destini dei due protagonisti, li porteranno ancora una volta su strade diverse. La struttura del romanzo, e la sua articolazione sue due piani differenti, rendono molto avvincente la lettura e riescono a tenere lo spettatore incollato al romanzo soprattutto per il modo strategico in cui sono disposti alcuni avvenimenti, come l’incontro di Alice con una ragazza davanti all’ospedale. 
La scelta del titolo, come spiegato dall’autore e dall’editore, è affidata al a fatto che Mattia ha deciso di assegnare a lui (2.760.889.966.649) e ad Alice (2.760.889.966.65) i due numeri primi che rappresentano la loro essenza.

martedì, novembre 11, 2014

La ricerca della felicità


"La ricerca della felicità", così a istinto, fa a un pensare a quei classici film americani che parlano di quanto sia importante conquistare il cuore della persona amata. A pelle, solo leggendo il titolo, almeno a me, a questo ha fatto pensare. Tuttavia, come ormai ci viene ripetuto spesso, non bisogna giudicare un libro da una copertina, e nemmeno un film dal proprio titolo. Certo la locandina lascia immaginare ben poco, se non che il cuore da conquistare sia quello del ragazzino.Andando oltre le apparenze, e immergendoci nella trama è stata toccante quanto umana/disumana la storia dei nostri protagonisti. Sì, in realtà, il fulcro della narrazione è incentrato su Chris Gardner, giovane uomo, padre e marito che come lavoro fa il venditore di scanner per rilevare la densità ossea, che in verità non riesce a dargli molto da mangiare. Proprio per questo motivo la moglie stanca di "sopravvivere" e stanca delle false speranze che il marito le dà ogni giorno, lo lascia. Da codarda quale è, perché solo così si può definirla, non porta via con sé il figlio, ma lo abbandona al tragico destino della "non vita", insieme al padre. Perché parlo di storia umana/disumana? Umanità è quanto più di vero che traspare dalla narrazione di questo giovane uomo che lotta ogni singolo giorno per dare riparo e cibo al figlioletto. Lotta come una gazzella che si sveglia nella foresta e sa che se non corre il leone la mangia. Così anche Chris, quando diventa stagista presso una società finanziaria, senza stipendio e con il solo compito di ottenere quel posto, lotta. Lotta per sé, lotta per il figlio. Lotta per la dignità. Cosa c'è di disumano? Sembra nulla. Basti pensare, invece, quanto sia ingiusto e triste vedere che un padre non riesce a garantire un tetto sulla testa della propria famiglia, nonostante faccia l'impossibile. Basti pensare quanto quei lontani anni'80 (periodo in cui è narrata la storia) non siano così diversi dai nostri giorni, dove c'è sempre più un grande divario tra le classi sociali, che irrimediabilmente si riconducono a due soltanto: ricchi e poveri. Chi guadagna oltre l'impensabile e chi arriva a metà mese senza un soldo. E cosa cambia invece tra queste due realtà storiche? L'atteggiamento. L'attitudine che spinge l'uomo a elevarsi. Se Chris ce l'ha fatta tanto da raggiungere il successo, il denaro, la stabilità, la sicurezza, restando nel posto in cui è nato, lottando contro le diseguaglianze sociali, razziali, emotive, oggi molti di noi scappano in terre straniere per avere il merito che gli spetta, trovando la via più semplice.
La ricerca della felicità non è il benestare. E il protagonista reale è il piccolo Christopher che lotta silenzioso affianco all'unico adulto che non l'ha lasciato. Christopher che elegge a suo eroe, suo padre. Christopher che attraverso l'esempio, apprende ciò che conta nella vita. Christopher che incoraggia con l'amore. Christopher che comprende la differenza tra ciò che conta e ciò che si ha. Non aveva nulla, eppure aveva tutto, perché la felicità è un percorso arduo ma la chiave vera per essere felici è quella di non smettere mai di credere nei propri sogni, qualunque essi siano.

sabato, novembre 08, 2014

The Waste Land, T.S. Eliot

Anno 1922. The Waste Land vede la luce sulla rivista inglese Criterion, e poi sul Dial di New York. Solo nei mesi seguenti Thomas Stearns Eliot arriverrà alla pubblicazione del volumetto in forma integrale.


Per scrivere questo post, sono salito su una piccola collinetta non lontano da casa mia. Nel tempo sono venuto fin quassù, in bici, per testare la mia resistenza, ma anche in compagnia per addolcire le serate. Ma oggi mi sono inerpicato solo per scrivere. In cima, c’è una piccola chiesa e su di un lato, quello rivolto al sole del mattino, il terreno è punteggiato da piccole croci o abbozzi di roccia. E’ il memoriale degli alpini. Un piccolo post-it per un ricordo duraturo. La classe del 22, tra i presenti in vetta, è largamente rappresentata e la maggior parte delle conclusioni che si possono leggere narrano spesso di dispersi in terra in Russia. E’ la leva di quei ragazzi che hanno visto nascere la guerra al compimento dei loro diciotto anni. Che si sono visti chiamare al dovere quando ancora la loro barba faticava a dirsi da radere. Ma che comunque non hanno fatto attendere la risposta, giusta o sbagliata che fosse.
Mai come in altri casi la dedica di un lavoro pare appropriata. La Terra desolata. Una lotta interiore dell’autore, è vero, ma è anche la lotta di una intera generazione di ragazzi, nata all’indomani della prima e pronta a cimentarsi con la seconda delle guerre. Sembrano essere nati già con un debito da saldare, già con un paio di scarpe con la suola consumata.

Quali radici si afferrano, quali rami crescono
su queste rovine di pietra? Figlio dell'uomo 
tu non lo puoi dire, né immaginare
perché conosci soltanto
un cumulo di frante immagini, là dove batte il sole.
E l'albero morto non dà riparo
e il canto del grillo non dà ristoro
e l'arida pietra non dà suono d'acqua.

La terra di cui ci parla Eliot, è la terra sterile e mortale dei cavalieri medievali alla ricerca del Graal, è la società moderna, accompagnata dalla crisi della civiltà occidentale, attraversata dalle ombre del primo conflitto mondiale e dei suoi strascichi; è infine anche Londra, città cara all’autore. Ma è anche spazio interiore, è il percorso accidentato dell'Uomo.

Nel 1922 (l’anno in cui è nato Berlinguer, ma anche mia nonna materna, tanto per intenderci ) l’autore riesce a dare alle stampe, non senza rimaneggiamenti e suggerimenti del suo amico e mentore Ezra Pound, il testo che forse più di tutti lo rappresenta. Il poema risulterà composto nella sua stesura finale, da cinque elementi narrativi, o forse sarebbe meglio parlare di cinque movimenti, tanta è la vicinanza con il genere sinfonico. Si scorgono le voci, con cui cantarla, i personaggi affiorano e si nascondo. Suggeriscono e tonano nell'ombra.
Le prime due parti (La sepoltura dei morti e Una partita a scacchi) si concentrano sulla descrizione degli  abitanti della Terra desolata: uomini perennemente angosciati dalle proprie paure, dove neppure il ricordo dona conforto, uomini spiritualmente morti, le cui azioni sono pure ripetizioni e prive di frutti. Anche quando si giunge all'apice del sentire, generato dalla suggestione del sesso, la passione non si eleva mai al di sopra della sterilità del meccanismo fisico. Tema ripreso e ampliato nella terza sezione (Il sermone del fuoco), nella quale compare però un elemento nuovo: il fuoco. Le fiamme come soggetto catartico, purificatore, equilibratore delle pulsioni. Forte è infatti il richiamo alle parole di Sant'Agostino e del Sermone del fuoco di Buddha.
Gli ultimi due momenti parlano del dopo. Nella Morte per acqua, viene introdotta la forza rigeneratrice propria dell'acqua. Ma non è una nuova vita, non è il battesimo. Non lo è almeno nelle forme in cui potremmo aspettarcelo. Il percorso ciclico si conclude poi con Ciò che il tuono disse, con la sua continua ricerca. Ma la ricerca di cosa?
I sat upon the shore
fishing, with the arid plain behind me
Shall I at least set my landsin order?

Sedetti sulla riva
a pescare, dietro di me l'arida pianura
riuscirò finalmente a fare ordine nelle mie terre?

mercoledì, novembre 05, 2014

Fight Club: la generazione dell'anarchia

La prima regola del Fight Club è che non si parla del Fight Club.
La seconda regola del Fight Club è che non si parla del Fight Club.”

Chuck Palahniuk ci apre le porte su un mondo ormai in declino. Sulla società dei 90 dove tutto va a rotoli e il cancro infesta la vita della gente.
Ancora prima dell'HIV, questa bestia ti mangia lentamente, e tu puoi solo stare lì ad aspettare.
Il resto è ombra. Nella quale ti aggiri ad occhi chiusi, senza un reale perché, cercando di dare un senso a quello che non c'è. Cercando di comprare quello di cui non hai bisogno e di guadagnare per ciò che in realtà non ti è mai interessato.
Le aziende investono non su di te, ma su quello che diventerai: un prodotto standardizzato. La merda del mondo.

Forse l'automiglioramento non è la risposta. Forse la risposta è l'autodistruzione.”
Il protagonista anonimo del romanzo ci illumina così.
Il protagonista anonimo del romanzo è un uomo insonne.
Ha passato la sua intera esistenza a cercare un modo per dormire, per calmarsi: pillole, aerei, aeroporti, gruppi di sostegno per i malati terminali.
Affronta la sua mera vita in questo modo. Correndo da una parte all'altra dello stato per la società d'assicurazione per cui lavora e trascorrendo le sue serate ad ogni possibile gruppo sui malati di cancro per piangere sulle spalle di gente che non conosce o di cui ricorda solo la patologia.
Poi qualcosa cambia: arriva Marla, la femme fatale della storia. Come lui ogni sera è in gruppo diverso, come lui è un'impostora.
Il cuore di Marla era come la mia faccia. Tutta la merda e l'immondizia del mondo. Pulitura postconsumistica di culo umano che nessuno si prenderebbe mai il disturbo di riciclare.”
Il cerchio idilliaco si spezza.
Ricomincia l'insonnia.

Poi arriva Tyler. Un genio, un visionario. Un uomo che lui non potrà mai essere. Fa sapone, fa il cameriere e fa il proiezionista.
E' disilluso, disincantato, ha un progetto per il mondo intero. Una ribellione.

Poi sei intrappolato in un bel nido e le cose che una volta possedevi, ora possiedono te.”
Il protagonista è intrappolato nella sua routine. Nella sua casa perfetta piena di oggetti perfetti stile Ikea.
Il protagonista perde tutto.
Il protagonista chiede aiuto a Tyler.
Sto sciogliendo i miei legami col potere fisico e gli oggetti terreni perché solo distruggendo me stesso posso scoprire il più elevato potere del mio spirito.”
Si prendono a pugni. Si riversano addosso quella merda che ingombra il mondo. La buttano via, se ne liberano.
Nasce così il Fight Club. Un ritrovo dove liberarsi dal mondo e da ciò che ci tiene legati alla società preconfezionata, un modo per riscattare il vuoto e il nulla della propria esistenza.
E' solo dopo che hai perso tutto che sei libero di fare qualunque cosa.”

Il Fight Club diventa molto di più. Tyler organizza il Progetto Caos, la burocrazia dell'anarchia. Recluta uomini, trasforma la loro casa nel loro quartier generale. I Fight Club si moltiplicano.
Intere generazioni hanno svolto lavori che detestavano solo per comperare cose di cui non hanno veramente bisogno.
Noi non abbiamo una grande guerra nella nostra generazione, o una grande depressione, e invece sì, abbiamo una grande guerra dello spirito. Abbiamo una grande rivoluzione contro la cultura. La grande depressione è quella delle nostre vite. Abbiamo una depressione spirituale.”

In questo romanzo profetico ci viene rivelato il grande punto interrogativo della nostra vita. Quel qualcosa che sentiamo nella nostra anima ma non riusciamo ad afferrare.
Siamo diventati macchine della società, vuoti e persi.
I sogni sono andati via e il corpo è solo un messaggero che ha perso il suo messaggio.
A nessuno importa se vivi o muori.
Sei il prodotto di ciò che sei.

Tyler è la Visione. Tyler apre un taglio, una breccia in quello che ormai non c'è. Perché più in basso cadi, più in alto volerai, più lontano corri, più Dio ti vuole indietro.
Non c'è più speranza. Tutto ormai è nel caos.
Tutto quello che hai amato ti respinge o muore.
Tutto quello che hai creato sarà gettato via.
Tutto quello di cui sei orgoglioso finirà in immondizia.”

Finché non apri gli occhi e capisci che Tyler sei tu.
Sei tu che odi te stesso. Sei tu che ami ma odi qualcuno.
Sei tu che vuoi picchiare ed essere picchiato fino a morire.
Sei tu che vuoi vedere crollare tutto per poi rinascere.
Distruggeremo la civiltà per poter cavare qualcosa di meglio dal mondo.”

E allora il Fight Club diventa la tua casa.
La malattia la tua compagna.
Finalmente sei sveglio.
Finalmente vedi tutto per quello che è.

Il libro diventa la denuncia della disperazione e dell'alienazione che conducono la Generazione X alla più completa anarchia.
Il film di David Fincher diventa il Cult.

martedì, novembre 04, 2014

Il giovane favoloso



"La sfida era pronunciare quelle parole senza declamarle, dire quei versi portandoli nella carne, nella quotidianità. Ho cercato di non pensare di essere un attore che recita una poesia, ma di immaginare di essere la persona che li ha scritti. Mi sono immedesimato in un Leopardi che li stava rileggendo, li provava per vedere se funzionavano. La mia grande fortuna è stata che ho avuto un grande sceneggiatore. Ogni battuta che pronuncio nel film proviene dai suoi scritti: lettere, poesie o saggi. Una cosa folle per un attore al cinema, ma un grandissimo regalo".
Queste, alcune tra le tante, sono parole pronunciate da Elio Germano, il Leopardi del nuovo film di Martone: Il giovane favoloso, presentato al Festival di Venezia a settembre. “Più che una sfida, che presupporrebbe un risultato,” dice anche l’attore romano durante la conferenza stampa ufficiale, “girare questo film è stato un trampolino di lancio, un magnifico tuffo", un tuffo che molti temevano non sarebbe stato dei migliori ma che invece, secondo me, è riuscito benissimo.
Ciò che ha permesso a Martone e (soprattutto) a Germano di eseguire un ottimo salto, è stata forse la preparazione preliminare alle riprese, il regista e i suoi attori si sono mossi per quattro mesi quasi in simbiosi in giro per Recanati e tra i magnifici colli circostanti per osservare gli ambienti, i cambiamenti di luce del paese e i luoghi dove Leopardi ha vissuto i suoi primi vent’anni. Germano ha dormito sul letto del poeta, ha scritto sulla sua scrivania e letto molti dei suoi testi per poi poterli recitare con passione e trasporto cercando di capire e far propri i suoi pensieri sfuggenti, “liquidi” e indefiniti, per sentire con tutto sé stesso il significato di quelle tante lettere scritte con imprudenza, quei versi sognatori e innamorati, quei saggi tanto autobiografici quanto universali. E cosa più difficile, dice sempre Germano, è stato tradurre la vita di Leopardi, che fa delle emozioni, dei sentimenti la propria casa, in riprese, i suoi pensieri dai contorni sfocati in scene a cui assistere al cinema.
Il regista si sofferma in particolare sui rapporti sociali del poeta, da quello complicato con la famiglia a quello con l'amico Ranieri, e non potendo menzionare tutti gli accenni biografici, spesso copre i buchi tra un avvenimento e l'altro con toppe fin troppo visibili che appaiono scollegate e isolate dal resto della storia. Martone dirige splendidamente Germano che dà vita in primo luogo a un Leopardi che si sente prigioniero a Recanati, nel "natio borgo selvaggio", i boschi, le strade, le case che da bambino aveva amato alla follia, ora hanno le sembianze di una gabbia, una prigione da cui riesce a evadere solo componendo versi e scambiandosi delle lunghe lettere, che a tratti assomigliano a richieste di aiuto, con l'amico e maestro Pietro Giordani, grazie al quale aumenterà sempre di più il desiderio di Giacomo di andar via da Recanati, per conoscere la vita vera. In trappola tra la famiglia che lo vorrebbe monaco e il padre che lo costringe nella sua biblioteca, Leopardi sembra diventare ogni giorno più intollerante e Germano è bravissimo a dar voce, anche solo attraverso le espressioni del volto, alle sofferenze, alla furia del poeta che scaraventa la sedia a terra mentre urla contro il padre "Io odio questa prudenza che rende impossibile ogni grande azione, padre".
Dopo un breve squarcio su Roma, Martone si sofferma a lungo sulla nuova vita del poeta, prima a Firenze, poi a Napoli, sul suo tentare di uscire allo scoperto, di smettere di vivere in un mondo di cristallo fatto di emozioni e mondi immaginari e di partecipare a quella che gli altri chiamano "vita reale". Si alternano scene di eventi mondani in cui Leopardi si sente fuori posto e sempre più infelice a incontri con poeti, scrittori, i cosiddetti "letterati" che cercano di convincerlo a scrivere versi, opere più allegre, il pubblico si sta allontanando da lui , è stufo della sua tristezza. A chi cerca di giustificare il pessimismo del poeta con le sue sofferenze fisiche risponde: "Non attribuite al mio stato quello che si deve al mio intelletto". Leopardi non concepisce "masse felici di individui infelici", scrive di sé stesso, non cerca la fama, la gloria, è innamorato della vita, dell'amore, della passione, trascrive in versi la sua infelicità, cercando qualcuno che stia lì ad ascoltarlo, ma quasi mai lo trova.
Accompagnato da una bellissima colonna sonora, Germano continua a dar vita, per tutto il film, urlando pieno di ira o con la voce ridotta a un sospiro, alle poesie di Leopardi, senza mai abbandonare la sua passione, il suo amore.
E così è anche il film: pieno di emozioni, fuoco, vita.